Le speranze sotto le macerie

Vent’anni fa la caduta del Muro di Berlino, ma il mondo nuovo non è nato.

«Quella sera, stavo parlando con un politico della Democrazia cristiana, allora saldamente al governo. A lui che si esaltava per la fine di un regime di illibertà, io espressi la mia preoccupazione per il futuro. Vissi la caduta del Muro di Berlino non solo come un successo - la fine di regime totalitario e illiberale come il comunismo - ma anche come l’inizio di una crisi che dura tuttora».
Stefano Trinchese aveva 32 anni il 9 novembre 1989 ed era uno dei giovani storici italiani più promettenti, con già alle spalle una lunga esperienza di studi e ricerche in Germania. Oggi, Trinchese, pescarese, storico di formazione cattolica (è stato allievo di Pietro Scoppola), è preside della facoltà di Lettere e filosfia dell’università D’Annunzio di Chieti-Pescara. In questa intervista al Centro fa il bilancio dei vent’anni, di speranze e delusioni, che ci separano da quella sera berlinese che parve imprimere alla Storia europea un’accelerazione improvvisa e dalle iprevedibili conseguenze.

Crollo del Muro e fine del comunismo: oltre alla gioia, che tipo di timori suscitarono in lei?
«Quella fine, come per qualunque sistema di potere allargato, significava l’avvio di una reazione a catena che inevitabilmente avrebbe fatto scoppiare, in tutto il mondo e ai confini dell’ex impero sovietico, una serie di di conseguenze difficilmente prevedibili e contenibili. Come poi è stato».

Quali conseguenze?
«Innanzitutto il riaprirsi delconflitto nell’allora Jugoslavia, che avrebbe tolto il coperchio dal pentolone del ribollire balcanico rimasto fermo per 70 anni. E infatti, subito dopo, in quelle terre, se la diedero di santa ragione. L’altra conseguenza riguardò l’Afghanistan, anche se non immediatamente. Lì l’Unione Sovietica aveva chiuso una disputa, che era aperta da tempo, fra la Russia zarista e l’Inghilterra. Finita l’Unione Sovietica, scoppia di nuovo il conflitto. Questa volta con gli Stati Uniti come uno degli attori principali. E, infine, altre conseguenze come la questione palestinese irrisolta, quella del Caucaso e i vari conflitti in Africa».

Come fu letto, all’epoca, dalla maggioranza degli storici quell’evento?
«Con un inno, come un peana alla libertà - cosa perfettamente giusta e legittima - e come il trionfo inevitabile di un regime di libertà e di democrazia. Cosa che, però, non era per nulla scontata».

Perché?
«Subito dopo la caduta del Muro, andai a Brelino per un seminario della Fondazione Adenauer e, parlando con la gente, scoprii due cose interessanti. Innanzitutto che la libertà non era per nulla scontata in una società, come quella della Germania dell’Est, in cui venivano di fatto a mancare sicurezze sociali a cui la popolazione era ormai abituata: un posto di lavoro sicuro, la casa e la scuola gratuite. Insomma, nel nome di una libertà sicuramente desiderata, veniva meno una serie di sicurezze sociali. Era iniziata già la cosiddetta Ostalgia, la nostalgia dell’Est. Un’altra conseguenza visibile era la rinascita di una sorta di feudalesimo, più brutale e meno nobile di quello medioevale, che si concretizzava nel riacquisto di vasti feudi e potentati economici da parte di vecchie famiglie di proprietari e, soprattutto, da parte di nuovi ricchi che esercitavano un violento potere classista, quasi avessero a che fare con dei nuovi servi della gleba».

Il ruolo del papa polacco, Karol Wojtyla, fu realmente decisivo nel causare il crollo oppure si tratta di un’enfatizzazione successiva?
«Fu importante come spinta finale. Sono molto critico sull’interpretazione del ruolo effettivamente svolto da Papa Giovanni Paolo II. Credo che a lui si possano collegare spinte importanti ma marginali. In realtà, il sistema era in crisi a causa, innanzitutto, del fallimento economico e politico. Quel sistema, ormai, era di carta. Bastava accendere un fiammifero per provocare un incendio. E Wojtyla accese quel fiammifero. Un ruolo importante, invece, lo svolsero personaggi come John Kennedy che ebbero il coraggio di schierarsi contro il sistema quando era ancora forte».

La fine della Guerra fredda consegnò agli Stati Uniti il compito di unica superpotenza militare: come ha assolto in questi 20 anni a quel compito?
«La nuova superpotenza unica ha assolto male questo compito, nel senso che si è trasformata nel poliziotto del mondo e ha avviato un’operazione su vasta scala di diffusione della democrazia attraverso interventi armati di pace. Ho una speranza in Obama, anche se è presto per esprimere un giudizio. Lui può far svolgere agli Usa un compito di superpotenza senza ricorrere solo all’argomento della forza e dell’espansione del dominio».

Vent’anni dopo, quali sono le maggiori speranze suscitate dal crollo del Muro andate poi deluse?
«Innanzitutto, quella di un mondo più giusto, che i due sistemi, durante la Guerra fredda, perseguivano con metodi diversi. Insomma, il mondo diverso e migliore non nasce con il crollo del comunismo. Certo, la fine di quel totalitarismo ha significato la fine di un regime di illibertà inimmaginabile e di atroce violenza nei confronti dei popoli. Ma con la sua fine non sorge quel mondo completamente migliore a cui l’Occidente aspirava. Nasce, invece, un mondo con enormi differenze di classe che condanna a un’indigenza vastissima tutto l’Est europeo, e che ripropone il problema di uno squilibrio profondo a livello continentale».