«Riscriverei la sentenza Grandi rischi»

Parla il giudice delle condanne poi cancellate «Nessuno ha fatto un processo alla scienza»

L’AQUILA. Le scelte di vita spesso diventano tali per caso: «Non ho chiesto io di fare quel processo, è capitato. Ma quella sentenza la riscriverei mille volte». Il giudice Marco Billi usa parole che asciugano ogni retorica istituzionale quando la risacca del tempo riporta al presente la sua sentenza: quella che in primo grado ha condannato gli esperti della commissione Grandi rischi scatenando un feroce dibattito nella comunità scientifica internazionale, quella che è stata prima ribaltata in Appello (per i magistrati di secondo grado il fatto non sussiste) e a novembre scorso dalla Cassazione. Da tecnico del diritto, Billi conosce la consapevolezza del carattere relativo della verità processuale, l'indifferente ricerca del vero e sa anche quanto le realtà giudiziarie si muovano su strade parallele che a volte si sfiorano, confliggono nelle valutazioni e nei giudizi. Billi, 47 anni, romano, in magistratura dal 1998, da novembre è tornato in Abruzzo, nel tribunale di Sulmona.

Lei ha redatto la sentenza della cosiddetta commissione Grandi rischi e, per motivare le condanne inflitte, ha scritto 940 pagine che non hanno retto né in Appello né in Cassazione. Cosa è successo?

«Non è successo nulla di particolarmente scandaloso. È stato fatto un processo per valutare la sussistenza di profili di colpa nella condotta di alcuni funzionari pubblici nella analisi del rischio sismico in occasione della riunione del 31 marzo 2009. Il meccanismo processuale si articola in tre gradi di giudizio. Gli imputati sono stati giudicati tutti colpevoli in primo grado. Il secondo grado, confermato in Cassazione, ha invece assolto sei imputati e condannato il solo De Bernardinis. E' il normale e fisiologico funzionamento del processo penale in Italia. Non è comunque corretto dire che la sentenza non ha retto in toto. L'aspetto della sussistenza del nesso causale tra la condotta colposa di funzionari pubblici e l'evento morte di alcuni cittadini (nella sentenza è stato definito "nesso causale psichico") è stato confermato sia in Appello che in Cassazione ed è un aspetto molto importante. Nell'epoca moderna problemi come l'analisi del rischio, la gestione del rischio e la corretta modalità di comunicazione in situazioni di rischio sono sempre più attuale e il caso L'Aquila è la prima importante individuazione in concreto della sussistenza di un legame psicologico tra la condotta colposa di alcuni funzionari pubblici ed il comportamento di parte della popolazione e della sussistenza di un nesso causale tra tale condotta colposa ed il decesso di alcune persone».

L'hanno accusata di aver fatto un processo alla scienza, evocando temi da Santa Inquisizione.

«Nessuno ha fatto un processo alla scienza e ancora oggi, dopo tutto quello che è stato detto e scritto su quella sentenza, non riesco a capire come possa affermarsi in buona fede che quello è stato un processo alla scienza.Ogni giorno nei tribunali ci sono centinaia di processi per colpa medica, ma questo non significa certo voler mettere in discussione la medicina o processare la scienza medica. Io non sono un sismologo e la condotta tenuta in concreto dagli imputati non è stata valutata (e ritenuta colpevole) sulla base di una teoria scientifica di segno contrario a quelle da loro affermate, non è stata ritenuta errata scientificamente. Il parametro di giudizio per valutare la condotta tenuta dagli imputati il 31 marzo del 2009 è stato individuato nel bagaglio di conoscenze degli stessi imputati e nelle pubblicazioni scientifiche di alcuni di loro ».

Si spieghi meglio.

«Si è ritenuto che questo bagaglio di conoscenze, questo "sapere", non è stato portato in sede di riunione e condiviso con tutti i partecipanti e si è definita questa (colpevole) mancata condivisione come la "morte del sapere". Si è poi ritenuto che a questa "morte del sapere" è stata collegata sul piano causale la morte di alcune persone. Perché nel corso di quella riunione gli imputati non hanno detto e condiviso quello che avevano scritto da scienziati di chiara fama quali sono?Tutti i passaggi logici della sentenza sono stati chiaramente ed espressamente illustrati. Primo fra tutti quello che non si è trattato di un processo alla scienza. Le accuse di aver processato Galileo fatte dopo il deposito della motivazione mi sono apparse volutamente fuorvianti. In estrema sintesi nella sentenza si è affermato che con una corretta analisi del rischio si sarebbero potute salvare delle vite e che in quella riunione gli scienziati chiusero i loro saperi in un cassetto e rassicurarono la gente sulla base di valutazioni approssimative, generiche ed inefficaci».

In che senso?

«E' pacifico ed incontrovertibile che i terremoti non si possono prevedere, ma sulla corretta analisi del rischio andava calibrata una corretta informazione e io penso che questo all'Aquila non è stato fatto né sotto il profilo dell'analisi del rischio né sotto quello della comunicazione».

E' stato sorpreso dalla decisione della Corte d'appello? «Ho detto e lo ribadisco che, anche all'esito della lettura delle motivazioni della sentenza di secondo grado, rimango fermamente convinto delle argomentazioni affermate nella mia sentenza che non cambierei. C'è da dire, però che io non mi innamoro mai delle mie decisioni e ho accolto senza stupore il fatto che in secondo grado sia stato seguito un percorso diverso. Se il fine della società e del nostro sistema sociale è, anche, quello di proteggerci da eventi come quello che ha colpito L'Aquila o comunque di cercare di ridurre al minimo le perdite umane, è del tutto normale che lo Stato (nella sua articolazione giudiziaria) sottoponga a verifica processuale la condotta di altra parte dello Stato (quella di alcuni funzionari pubblici) per verificarne eventuali profili di colpa. Ed è normale e corretto che una decisione così delicata venga sottoposta al vaglio di un secondo grado di giudizio e di un terzo grado di legittimità. Il fine comune è quello di proteggerci e viene perseguito in almeno tre fasi. C’è una prima fase che è quella dell’analisi del rischio e della comunicazione dell’esito di tale analisi alla popolazione. C’è una seconda fase che è quella della gestione del rischio e consiste nelle contromisure adottate sulla base del risultato dell’analisi del rischio. C’è una tersa fase, quasi sempre postuma rispetto all’evento, che è quella del giudizio su come sono state condotte le prime due fasi. Questa terza fase (il processo penale) si articola in tre gradi di giudizio. Piuttosto che sorprendersi per l'esito del secondo grado di giudizio, occorre notare che lo Stato è stato in grado di processare se stesso».

E oggi che lezione trarre da tutto questo?

« L'aspetto focale, ora, è domandarsi cosa abbiamo imparato dalla vicenda, verificare se e come in futuro possiamo ritenerci più protetti da eventi come quello del 6 aprile 2009 sulla base dell'esperienza maturata. Altrimenti tutto il lavoro fatto sarebbe inutile e in una eventuale nuova situazione di rischio saremmo sempre allo stesso punto. Per questo mi sembra molto riduttivo continuare a dire che l'unica possibilità di difesa dai terremoti consiste nel costruire bene. L'Aquila, come molte altre città italiane, è una città del 1200 e non può essere rasa al suolo e ricostruita secondo criteri antisismici. Proteggersi dal terremoto (laddove non vi è la possibilità o mancano le risorse per costruire bene) passa necessariamente attraverso una corretta applicazione di tutte e tre le fasi descritte».

I giudici di Appello, sentenza confermata dalla Cassazione, hanno assolto gli esperti e condannato a due anni il responsabile della protezione civile Bernardo De Bernardinis. Che valutazione dà ?

«Le sentenze si rispettano e io, da tecnico del diritto, rispetto le sentenze. Non gioisco né delle condanne né delle assoluzioni. Mi desta qualche perplessità, tuttavia, il fatto che in appello sia stato ritenuto responsabile solo chi (De Bernardinis) non aveva una preparazione scientifica specialistica sui terremoti. De Bernardinis ha chiaramente affermato, anche nel corso della famosa intervista rilasciata a margine della riunione, di aver «smesso i panni dell'accademico» (è un ingegnere idraulico) ed ha rivendicato il proprio ruolo operativo (tecnico della Protezione Civile). Cosa ne poteva sapere De Bernardinis della vulnerabilità sismica dell'Aquila piuttosto che dei precursori sismici o dei periodi di ritorno delle scosse più distruttive? E' evidente che lo stesso De Bernardinis, come da lui ripetutamente e disperatamente ribadito, ha percepito come rassicurante l'esito dell'analisi del rischio del 31 marzo 2009. Del resto nel giudizio di appello, per quello che mi consta, è stato prodotto uno spezzone della conferenza stampa post riunione nella quale espressamente lo stesso De Bernardinis (alla presenza dei giornalisti e degli altri imputati) esclude la possibilità che a L'Aquila ci saranno scosse maggiori di quella del 30 marzo 2009. Su questo punto specifico, tuttavia, forse per mia colpa, non ho compreso la motivazione della sentenza di secondo grado».

Usciamo dalla Grandi Rischi. Talvolta l'eccesso di formalizzazione del ragionamento giudiziario produce un distacco dalla vita reale . Perché succede sempre più spesso?

«Non sono d'accordo con la premessa della domanda. Io credo, invece, che nelle aule di giustizia succeda proprio il contrario. Nella massa dei processi che si affrontano in ogni udienza noi giudici siamo costretti ad operare senza personale e senza mezzi adeguati. Ad ogni udienza celebriamo i processi in condizioni di estremo disagio materiale e con grande frustrazione morale. A volte siamo costretti a tagliare corto con testimoni e parti processuali per andare diritti all'osso della questione e spesso rinunciando ad approfondimenti necessari. Ma limitarsi a piangersi addosso parlando della povertà dei mezzi è inutile e non ce lo possiamo permettere. Per me una concreta via d'uscita non è tanto quella di continuare a riformare i codici e le procedure ma quella di dotare l'apparato giudiziario di mezzi e strumenti minimi necessari per poter funzionare e lavorare sul corrente e non rincorrere le prescrizioni».

Il processo penale dopo i cambiamenti del passato appare sempre più un ibrido e non sempre le norme appaiono in linea con i cambiamenti della società. In che modo è necessario intervenire?

«Il problema, a mio giudizio, non è costituito dal tipo di meccanismo processuale prescelto. Il nostro attuale sistema penale è più garantista rispetto a quello precedente ma, se si opta per offrire agli utenti della giustizia maggiori garanzia, bisogna essere in grado di poterselo permettere. Un sistema formalmente garantista che, di fatto, non funziona non garantisce nessuno».

Oggi esiste un problema di terzietà del giudice?

«E’ un tema fondamentale su cui è necessario stare molto attenti. Il problema dell'imparzialità e della la terzietà del giudice esiste da sempre e non da oggi. Il suo è un ruolo molto delicato e solo rimanendo calato nella realtà il giudice può svolgere al meglio il proprio lavoro. Il sistema prevede dei meccanismi di tutela per evitare condizionamenti dei giudici e garantirne la terzietà. Ma tutto va valutato caso per caso».

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