Strage di Nassirya, l’Abruzzo onora Lattanzio: «Simbolo di coraggio e dignità, il suo sacrificio seme di pace»

Il generale Feroce ricorda il carabiniere morto in Iraq nell’attentato del 2006: «Investigatore di razza, da lui una lezione contro la violenza cieca e selvaggia»
CHIETI. Esistono giorni che pesano più di altri. Giorni segnati in rosso sul calendario dell’anima, appuntamenti solenni con il ricordo. Il 12 novembre appartiene a questi: una data scolpita nel 2003 dalla prima strage di Nassiriya, e dedicata da allora a tutti i caduti, militari e civili, nelle missioni di pace.
Ieri Chieti ha vissuto uno di quei momenti in cui la memoria si fa presenza fisica, un respiro collettivo. Davanti al Monumento al carabiniere di via Ricciardi, la Legione carabinieri Abruzzo e Molise ha celebrato la diciassettesima giornata del ricordo. Non un appuntamento istituzionale di routine, ma un gesto più profondo, un raduno della famiglia dell’Arma. Lo ha spiegato il comandante, il generale Gianluca Feroce, definendolo «un atto del cuore», un giorno in cui «la memoria si fa dovere e il silenzio si fa preghiera». Un ponte, lo ha chiamato, «che unisce il passato al nostro presente», perché ricordare, ha aggiunto, «è un verbo che non ammette passività. Significa rendere viva la testimonianza» di coloro che hanno «onorato la bandiera italiana, il giuramento prestato e la loro uniforme».
E la testimonianza viva, ieri, era quella per uno dei suoi figli. L’intera cerimonia ha voluto rendere onore in modo particolare al maresciallo maggiore aiutante Franco Lattanzio. Un «investigatore di razza», come lo chiamavano i colleghi, caduto in Iraq il 27 aprile 2006.
Franco aveva 38 anni, veniva da Pacentro, ma la sua vita era al Nucleo investigativo di Chieti. Ieri, i suoi colleghi erano lì, e nei loro ricordi c’era l’uomo in tutta la sua ricchezza e complessità, non solo il caduto. C’era il professionista meticoloso, l’investigatore che era diventato il referente provinciale per i rilievi scientifici, l’uomo indispensabile di collegamento con il Ris di Roma. Una colonna su cui poggiava la struttura: un punto di riferimento assoluto per la scala gerarchica, che in lui vedeva competenza e rigore, e per i colleghi più giovani, che in lui trovavano un maestro.
Quel ruolo di riferimento Franco se l’era guadagnato anche fuori dalla caserma. Tra i cittadini, i commercianti della zona, che lo vedevano come un presidio di sicurezza e umanità. Una vita piena, vissuta con la passione per le moto, interrotta nel modo più brutale. La presenza dei suoi colleghi carabinieri, ieri, era il filo più forte, la testimonianza orgogliosa di chi era Franco.
Il suo ritorno a Chieti era atteso a breve. Era partito il conto alla rovescia nella primavera del 2006. Mancava poco, una manciata di giorni. La missione, «Antica Babilonia», doveva finire il 10 maggio. Ma il destino, in quella terra lontana, si fermò tredici giorni prima. Erano le 8.50 del mattino del 27 aprile. Un convoglio della Multinational specialized unit, quattro mezzi in tutto, era in viaggio. Franco si trovava sul secondo veicolo. Un ordigno, potente, era nascosto al centro della strada. Lo investì in pieno. L’esplosione fu una fiammata terribile, che spense quattro vite all'istante. Insieme al maresciallo Lattanzio, morirono sul colpo il capitano dell'Esercito Nicola Ciardelli, il maresciallo capo Carlo De Trizio e il caporale della polizia militare rumena Bogdan Hancu. Un quinto militare, il sottufficiale Enrico Frassanito, sopravvisse all’inferno di fuoco solo per morire il 7 maggio successivo, in un letto d’ospedale in Italia, consumato dalle ustioni.
Ieri, le parole del generale Feroce – che ha deposto una corona d’alloro insieme al prefetto di Chieti Gaetano Cupello e al tenente colonnello dell’esercito Adolfo Felicissimo – hanno rinnovato il senso profondo di quel sacrificio, collegando la morte di Franco alla legge morale che ci portiamo dentro. «I nostri caduti avevano quell’imperativo categorico profondamente radicato nell’animo, che li ha guidati fino all’estremo sacrificio. La loro storia ci insegna che il sacrificio individuale è spesso il seme della libertà collettiva e della pace». Un’eredità, ha proseguito il generale, «non di dolore, ma di immensa dignità e coraggio». Il comandante – anche davanti agli alunni della scuola primaria di via Pescara – ha voluto ricordare cosa significhi l’etica del servizio per un carabiniere, in patria come in Iraq. Significa possedere «un impianto etico solido, una bussola morale che non conosce tentennamenti». È un credo che impone di «anteporre la sicurezza e la difesa della collettività alla nostra incolumità personale».
Il pensiero finale è andato a chi resta. A chi porta il peso di quel sacrificio nel quotidiano. «Alle famiglie di ogni caduto, il cui dolore non conosce tempo», ha detto Feroce, «rivolgiamo il più profondo sentimento di vicinanza e gratitudine di tutta l’Arma dei carabinieri». Un legame che non si spezza, perché quelle famiglie «sono parte integrante della nostra grande istituzione e il loro lutto è il nostro lutto, la loro forza è la nostra ispirazione».
Il generale ha ricordato Cicerone, «Historia magistra vitae», la storia è maestra di vita. Il ricordo di Nassiriya, del maresciallo Lattanzio e di tutti i caduti, ha concluso, è «una lezione di vita perenne, un monito contro la violenza cieca, selvaggia e al contempo un’esaltazione del coraggio e dell’altruismo» che deve guidare l’agire quotidiano. Un impegno, ha promesso, a «non indietreggiare di fronte alla paura o all'ingiustizia», rinnovando quel giuramento che per Franco Lattanzio e per tutti i caduti non è stato solo una formula, ma la scelta di una vita.

