Feltri: “Dalle Marche una lezione per la Schlein”

L’ex sindaco di Pesaro è stato penalizzato dalle inchieste ma la segretaria Dem ha preferito il garantismo per non sfiduciare un amministratore importante
ROMA. “Parte dalle Marche la conquista di Palazzo Chigi”, era il titolo di un’intervista di Matteo Ricci, il candidato sconfitto del centrosinistra, lo scorso 12 luglio a L’Unità. Un titolo invecchiato male. Dieci giorni dopo arriva la notizia che Ricci è indagato per corruzione dalla procura di Pesaro: l’accusa, in sostanza, è di aver tratto beneficio politico da una serie di affidamenti diretti e iniziative gestite da un suo collaboratore che aveva anche trattenuto una parte delle somme messe a disposizione dal Comune di Pesaro quando il sindaco era Ricci.
Lui, Ricci, non è accusato di aver preso soldi, ma per legge la corruzione si contesta anche a chi potrebbe aver beneficiato di “altre utilità” diverse dal denaro. L’interessato e il centrosinistra la presentano come un’inchiesta a orologeria, annunciata giusto in successione alla data per il voto. Ma Ricci ha avuto almeno un anno per preparare la sua difesa, visto che a sollevare la cosiddetta “affidopoli” erano state le inchieste del quotidiano QN già a inizio estate 2024.
Ricci, quindi, era un candidato che partiva penalizzato dalla grana giudiziaria che incombeva sulla campagna elettorale. Ma c’erano anche alcuni altri dettagli che rendevano la sua corsa problematica: alle europee di giugno 2024 Ricci è stato eletto europarlamentare del Pd con ben 106mila preferenze, a conferma della popolarità maturata a Pesaro come presidente della Provincia e poi sindaco.
Non tutti quegli elettori del Pd saranno stati contenti di vederlo così pronto ad abbandonare il seggio a Bruxelles per tornare nelle Marche dopo meno di un anno. L’europarlamento, per Ricci, era stato una specie di risarcimento legato agli equilibri interni al Pd: durante le primarie 2023 per la segreteria del Partito democratico, Ricci era uno degli amministratori locali più schierati a sostegno di Stefano Bonaccini. Poi le primarie le ha vinte Elly Schlein e lui si è trovato spiazzato.
Le premesse, insomma, non erano delle migliori. Poi è arrivata l’inchiesta giudiziaria che ha posto Pd e Cinque Stelle di fronte a una scelta: scaricare il candidato indagato o andare avanti comunque?
Ha prevalso un garantismo dal punto di vista formale più che legittimo, visto che Ricci è soltanto indagato, ma politicamente complicato da spiegare agli elettori. Il Pd di Elly Schlein è sembrato poco convinto, sono filtrati malumori e spaccature come sempre in questi casi, e alla fine ha prevalso una logica a pacchetto.
Mollare Ricci avrebbe significato dover sfiduciare anche l’altro amministratore locale importante sotto indagine sostenuto dal Pd e, cioè il sindaco di Milano Beppe Sala. E questo avrebbe aperto una serie di crisi che Elly Schlein non aveva alcuna intenzione di gestire.
Il presidente dei Cinque Stelle Giuseppe Conte si è trovato investito di un potere di veto sostanziale. Poteva dire di sì o di no, vita o morte per la coalizione. I Cinque stelle hanno sempre diffidato dai politici indagati, figurarsi da quelli per corruzione, ma negli ultimi anni sono diventati più pragmatici.
E così Conte ha dato il via libera a Ricci. Perché in fin dei conti non era poi così autonomo come sembrava: se voleva ottenere la candidatura del Cinque Stelle Roberto Fico in Campania, era costretto ad accettare anche Ricci nelle Marche ed Eugenio Giani in Toscana, sgradito pure alla stessa Elly Schlein a sua volta però limitata nelle opzioni da altri pezzi di partito.
Gli elettori magari non sono consapevoli di tutti questi equilibri di potere all’interno della coalizione, ma avvertono che il cosiddetto campo largo non ha una strategia e una leadership riconosciuta.
C’è un malessere più profondo che si intravede in questa elezione. Tanto Ricci quanto Acquaroli sono stati accusati di aver speso cifre consistenti per iniziative di marketing territoriale tanto smaccate quanto dalla dubbia utilità. Tra i lavori per cui Ricci è sotto accusa c’è un gigantesco casco di Valentino Rossi di 400 chili, alto sei metri, per celebrare il pilota di moto pesarese.
A inizio mandato, il presidente delle Marche Acquaroli ha messo sotto contratto come testimonial l’allora allenatore della nazionale di calcio italiana, Roberto Mancini, marchigiano di Jesi, per cifre imponenti: almeno 700.000 euro fino al 2025. Poi pare che il contratto sia stato rescisso per passare, con uno zero di meno, al saltatore Gianmarco Tamberi.
Questa costosa ossessione per il racconto delle Marche, per far conoscere la regione agli altri italiani come se da questo dipendessero i suoi destini, nasconde una consapevolezza di declino irreversibile che certo ha pesato quantomeno sull’affluenza.
In piena campagna elettorale, lo scorso 4 agosto, il governo Meloni ha fatto una mossa che è stata commentata da molti come l’ennesimo favore ad Acquaroli per sostenere il centrodestra alle regionali: l’ampliamento della Zes, la Zona economica speciale unica, alle Marche.
Crediti d’imposta e incentivi fiscali vari riservati alle imprese del Mezzogiorno, vengono così estesi anche a Umbria e Marche, due regioni che erano sempre state associate al centro ricco e progressista del Paese, non certo al suo Sud in difficoltà.
Sul sito della rivista Il Mulino, lo storico dell’economia Filippo Sbrana ha discusso le implicazioni di questa annessione di fatto delle Marche al Mezzogiorno, che non è solo una furbata elettorale, ma la conferma di una crisi strutturale:
Il Pil pro capite umbro crolla dopo il 2000: allora era superiore del 20% rispetto a quello medio europeo, nel 2022 è pari solo all’83%. L’Umbria perde oltre 70 posizioni nel ranking delle regioni europee.
Peraltro, negli ultimi anni si è registrato un significativo calo demografico, maggiore del resto del Paese e con proiezioni future inquietanti: l’Istat ipotizza una contrazione della popolazione residente regionale nel 2042 di quasi l’8% rispetto al 2022. Le preoccupazioni riguardano anche una scarsa capacità d’innovazione da parte delle imprese (bassi livelli di spesa in ricerca e sviluppo, basso grado di digitalizzazione ecc.) e una forte diminuzione della produttività.
Nelle Marche, scrive sempre Sbrana, è andata ancora peggio: nello stesso periodo il Pil pro capite delle Marche è passato dal 116% al 91% della media Ue, perdendo in vent’anni circa cinquanta posizioni nel ranking Ue. Se guardiamo al periodo più recente, quello compreso fra 2008 e 2023, l’economia marchigiana ha registrato un andamento peggiore rispetto alla media nazionale e anche a quella dell’Italia centrale.
Alla fine di questi quindici anni il valore aggiunto in regione risulta ancora inferiore di 5 punti percentuali rispetto al 2007, anno d’inizio della crisi finanziaria.
Secondo la Banca d’Italia, hanno contribuito negativamente tutti i settori produttivi: l’industria in senso stretto, ma anche le costruzioni, l’agricoltura e il terziario. Non si tratta quindi di difficoltà circoscritte a singoli comparti, ma di un problema sistemici.
Gli elettrodomestici Merloni, le cartiere di Fabriano, il distretto dei calzaturifici: una volta erano sinonimi della prosperità delle Marche, ora sono i focolai di crisi industriale senza rimedio.
Quindi, in un certo senso, questo voto rende le Marche davvero lo specchio del Paese: un centrodestra abbastanza compatto ed efficace da vincere, un centrosinistra che non ha una identità chiara e non riesce a presentarsi come alternativa credibile.
La stabilità politica e il comando saldo di Giorgia Meloni sulla destra non si traducono però in una maggiore efficacia nell’affrontare i problemi profondi, che vengono sempre coperti da una spessa coltre di narrazioni e slogan.
E la vera differenza tra i candidati dei due schieramenti finisce per essere soltanto il testimonial che deve incarnare, a spese dei contribuenti, quella narrazione. Si vota, insomma, per scegliere tra gli spot con Valentino Rossi e quelli con Roberto Mancini. Ma poco cambia.
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