Gaza, la prima carestia che ci insegue

L’editoriale del direttore: «Questa è la prima catastrofe umanitaria pandemica innescata da una guerra che assume proporzioni di portata internazionale, la prima carestia che ci raggiungerà ovunque»
Ormai Gaza è tecnicamente attraversata da una “Carestia”. Da oggi questa parola grave e drammatica irrompe nelle nostre vite e cambia tutto, riscrive le narrazioni ufficiali, i protocolli, muta la percezione delle proporzioni della strage, non solo per chi si trova nella Striscia, sotto le bombe, ma anche per noi, che siamo dall’altra parte dello schermo, apparentemente sicuri nelle nostre case. Questa è la prima catastrofe umanitaria pandemica innescata da una guerra che assume proporzioni di portata internazionale, la prima carestia che ci raggiungerà ovunque: nei talk, nei servizi dei telegiornali, ma anche sui computer, sui tablet e sugli schermi dei nostri telefonini. C’è stato il Ruanda, ma non esisteva ancora la rete. C’è stata la Bosnia, ma (per fortuna) non esisteva ancora Facebook. C’è stato il Kossovo, ma non c’erano immagini su Instagram, né polemiche su X. Questa è la prima carestia che ci mostra le sue stimmate in presa diretta su ogni device, e che cammina come benzina che prende fuoco sulle ali dei social. Il peggio – purtroppo – deve ancora arrivare.
Il dato nuovo, dunque, è che ieri a Gaza un nuovo orrorifico confine è stato superato, anche dal punto di vista formale. A certificarlo, nero su bianco, è un rapporto delle Nazioni Unite, che (sostenuta da ciò che raccontano tutte le associazioni umanitarie presenti nella Striscia) e rilanciato per bocca dei suoi commissari e dei suoi segretari ieri affermava testualmente: «La fame a Gaza è promossa da Israele come arma, è un crimine di guerra. Per il bene dell’umanità, fateci entrare a Gaza per portare direttamente dei soccorsi». Non solo: «La carestia nella popolazione palestinese – si legge ancora nel rapporto Onu – è interamente provocata dall’uomo e le vite di 132.000 bimbi sotto i cinque anni sono a rischio morte a causa della malnutrizione». Questi sono solo due dei tanti passaggi choc che si leggono nel rapporto dell’Integrated food security phase classification (nome in codice Ipc), sistema globale di monitoraggio della fame sostenuto dalle Nazioni Unite, e nelle grida di allarme dei suoi massimi dirigenti.
È quasi inutile ricordare che Tel Aviv ieri contestava il responso dell’indagine, e rispondeva addirittura che si tratta di «un rapporto falso e basato su dati di Hamas». Inutile (ma in realtà grottesco) invitarvi ad andare a vedere, se non lo avete ancora fatto, il video diffuso dai responsabili della diplomazia di Netanyahu: una sorta di Masterchef in Gaza in cui – accompagnata da una colonna sonora alla Rocky – si mostrano immagini pantagrueliche di pasticceri sorridenti che glassano cornetti, preparano pizze farcite e cucinano torte nella Striscia. Inutile perché è un tentativo isolato e involontariamente tragicomico di negare le immagini di denutrizione, le condizioni ai minimi vitali di chi è riuscito ad approdare da Gaza ai nostri ospedali italiani per iniziativa (in questo caso davvero benemerita) del ministro Antonio Tajani.
Poco importa anche – cari lettori – quello che è stato detto e sostenuto fino ad oggi da tutte le parti in causa, il tentativo talvolta complesso di distinguere il torto dalla ragione, verità dalla propaganda. Il tema è che da ieri siamo arrivati ad un punto di non ritorno dell’allarme umanitario di fronte a cui non conta più se all’inizio di questo conflitto si simpatizzava per una parte o per l’altra, per i palestinesi o per gli israeliani, per i generali dell’Idf o per Netanyahu. Molti intellettuali israeliani che dopo il 7 ottobre sostenevano l’intervento oggi hanno cambiato la loro posizione. Il più importante e noto tra di loro, David Grossman ha detto: «Mi costa, ma ormai siamo costretti a parlare di genocidio». Persino il capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, per giorni, prima di piegarsi alla volontà del governo, ha avvertito l’esecutivo sui rischi e le difficoltà umanitarie e militari dell'intensificare la campagna a Gaza: nessuno gli ha dato retta. Non importa dunque tutto quello che abbiamo detto fino ad oggi. Entro fine settembre questa terrificante carestia si espanderà come un virus in tutta la Striscia, e colpirà soprattutto i più deboli, cioè i bambini e gli anziani. Nelle prossime ore una enorme colonna umana, potenzialmente un milione e duecentomila persone (con l’eccezione di quelli che accetteranno di restare a rischio della vita sotto il fuoco dell’offensiva israeliana) si metterà in marcia nella polvere, verso sud, in direzione del confine con l’Egitto. Il bello è che l’Egitto continua a ripetere che non aprirà mai il valico di Rafah, e che nemmeno consentirà la costituzione di campi profughi nel deserto del Sinai.
Qualunque cosa si pensi, o si sia pensato – dunque – il tema non è più cosa sia accaduto ieri, ma cosa starà per accadere domani. Non il destino degli eserciti e dei combattenti, ma quello dei civili. Abbiamo tutti gli elementi per capire che il rapporto dell’Onu è serio: una inchiesta del Guardian – solo la settimana scorsa – ha spiegato che il monopolio nella distribuzione degli aiuti, conquistato da Israele esautorando tutti i soggetti istituzionali e umanitari ha ridotto a quattro centri i punti di distribuzione nella Striscia (dove prima c’è n’erano 400). L’autorevole rivista britannica ha spiegato che il governo ha ordinato di bloccare migliaia di camion di aiuti, tonnellate e tonnellate di merci con le scuse più improbabili. Percorsi tortuosi ed esposti al rischio predatorio, stato di fermo per interi convogli di datteri con la motivazione che sarebbero un “genere di lusso”. O addirittura sequestro delle forniture di pane, con la motivazione che avrebbe «la possibilità di essere conservato e dunque potrebbe essere riutilizzato da Hamas» per il sostentamento dei suoi guerriglieri (ma se fosse così, questo potrebbe accadere con qualunque altro genere alimentare). Tutto ciò accade mentre davanti ai punti di distribuzione della Ghf (l’organizzazione Israele americana che si è sostituita all’Onu) ogni giorno si creano code bibliche e resse drammatiche e puntualmente muoiono dei civili, che si ritrovano quasi sempre sotto il fuoco dei cecchini. Sempre secondo un’altra inchiesta – quella del quotidiano israeliano Haaretz – un calcolo circostanziato sui nomi delle vittime ci consegna una percentuale incredibile: cinque caduti su sei, tra le vittime già prodotte dal conflitto, sono bambini e minori. Ho citato volutamente, fino ad ora, soltanto fonti occidentali o israeliane. Non importa dunque cosa abbiamo tutti pensato fino a ieri, importa che cosa penseremo domani, quando questo scenario si sarà dipanato sotto i nostri occhi. È la prima guerra moderna in cui torna l’impiego dell’arma della fame come strumento scientifico, e la prima carestia che si appresta all’esplodere sotto gli occhi del grande fratello social. Non riguarda (solo) i palestinesi. Riguarda tutti noi, le democrazie occidentali, i suoi cittadini. Distogliere lo sguardo, tra poco, non sarà soltanto difficile. Sarà impossibile.