Pescara

Il modello pescarese e il ricordo di Giorgio Armani: «Mi fece sfilare per strada, ti studiava senza parlare»

6 Settembre 2025

L’indossatore Alessio Consorte ricorda gli anni nella scuderia del genio milanese: «Era discreto, nei suoi occhi leggevi la bellezza. Mi ha insegnato l’eleganza»

PESCARA. «Sa che una volta Armani mi ha fatto sfilare per strada? Glielo racconto». Con questa immagine inizia il ricordo di Alessio Consorte, modello pescarese classe 1980 che per Re Giorgio ha sfilato tre volte conquistando l’affetto di quell’uomo che con la sobrietà ha rivoluzionato per sempre il mondo dell’alta moda. Già nel 2004 il Centro raccontava nelle sue pagine il trionfo di questo nuovo, giovane modello che dalla provincia era fuggito via per diventare protagonista delle passerelle nelle grandi capitali della moda. Arriva oltreoceano, sfila per Versace e posa per Weber, gira tra Milano, New York e il Sud Africa. La carriera che sognava l’ha realizzata, ora è tornato nel suo Abruzzo dove lavora come fotografo e cineasta. Ma il ricordo di quegli anni è indelebile.

Consorte, da Pescara alla corte di Re Giorgio. Com’è successo?

«Tutto un po’ per caso, come sempre. Ero un giovane modello alle prime esperienze importanti quando mi chiamarono per fare il servizio di leva, a Marifari Venezia. La mia agenzia mi chiama: “ti vogliono per la campagna di Armani Jeans”».

Addio alle armi?

«Macché. Avrei voluto filarmela subito, ma c’erano dieci giorni di rigore da rispettare, il comandante non ne volle sapere. Ma dopo due anni…».

L’hanno richiamata?

«Mi sono ripresentato. A Milano, nel 2001, per un super-casting con duecento persone. E tra quelle duecento persone, a giudicarle una per una, c’era lui».

Che ha pensato quando l’ha visto?

«Ero ghiacciato. Nessun uomo mi ha mai fatto quell’effetto, il suo modo di guardarmi mi metteva a disagio anche se era un imbarazzo in qualche modo positivo».

Come la guardava?

«Ti squadrava, era capace di farti un identikit preciso dopo pochi secondi solo da come ti muovevi, da pochi dettagli. Aveva un occhio clinico. E in quell’occhio ci leggevi un mondo: bellezza, classe, eleganza».

Ma tra duecento persone come ha conquistato quell’occhio clinico?

«In realtà fu un colpo di fulmine. Mi vide, si alzò, fermò tutti e mi disse: “Sei italiano?”. Calò il gelo».

E lei?

«Tirai fuori un timido: “Sì, di Pescara”. E lui: “Ottimo, sei dei nostri”».

Un fan di Pescara?

«No, credo che avesse apprezzato i tratti marcatamente italiani in un marasma di modelli che venivano da ogni lato del mondo».

Per quanto tempo avete lavorato insieme?

«Ho fatto per lui tre sfilate, che in questo ambiente non sono mica poche».

Qual è stata la più difficile?

«Una… per strada».

Scusi?

«Questa è buffa. Era il 2004, appena tornato dagli Stati Uniti dopo un’esperienza con Versace».

Il momento d’oro della sua carriera.

«Sì. Dovevo fare un provino per Armani a Milano, ma sono attivato tardissimo. Il caso ha voluto che io l’abbia incontrato per strada, in via Borgo Nuovo con il suo staff. E lui: “A quest’ora si arriva? Dai, sfila”».

In via Borgo Nuovo?

«Sì, in mezzo alla strada. Io sfilavo e lui era lì immobile che mi studiava».

Che disse?

«Nulla, Armani era un uomo silenzioso. Tutto quello che ti trasmetteva, lo trasmetteva con lo sguardo».

Quindi nessuna massima da “vecchio saggio”?

«No, ho imparato guardandolo lavorare».

E cosa ha imparato?

«A saper indossare Armani (ride, ndr). L’eleganza in tutto, sicuramente».

Ma così me lo descrive come un monaco, mi scusi. Non aveva difetti?

«Per come l’ho conosciuto io, niente di sgradevole. Era riservato, discreto. Come sanno tutti. Non l’ho mai visto perdere tempo in vizi inutili, invece lo vedevo lavorare giorno e notte senza sosta».

Prima di una sfilata cosa vi diceva?

«Si avvicinava, ti guardava e ti dava un tocco all’abito. E quell’abito prendeva vita, aveva una magia».

Ma l’ambiente della moda sa essere ingiusto, per usare un eufemismo. Quello intorno ad Armani com’era?

«Lui non aveva eguali, ma intorno giravano persone per bene che sposavano la sua causa».

Cioè?

«Spingere sui giovani meritevoli. Quando lavoravi per Armani sapevi che saresti stato pagato benissimo, puntualmente, e che saresti stato valorizzato. Lui adorava aiutare i ragazzi della sua scuderia. Ho perso il conto degli sconti e dei regali nei suoi showroom».

Quale fu il primo capo su cui si fiondò?

«Ricordo con affetto un paio di pantaloni un po’ larghi che si usavano in quegli anni. Li indossavi, facevi una passeggiata ed eri subito in American Gigolo».

L’ultima volta che l’ha visto?

«Due anni fa, in un ristorante a Milano. L’ho visto da lontano, mi sono alzato. Avevo paura che non mi riconoscesse, dopo tanti anni…».

E invece?

«Dissi: “Re Giorgio!”. Lui sorrise, mi fece cenno di sedermi accanto a lui. Scattammo una foto, un ricordo prezioso. Non lo vidi più».