La famiglia sfasciacarrozze (e noi)

Distrutto l’impero giornalistico. A questo folgorante bilancio andrebbero aggiunte Ferrari e Juve. L’editoriale del direttore sugli Elkann
PESCARA. Se mai si celebrasse una Norimberga delle intelligenze e della responsabilità di impresa, gli Elkann si ritroverebbero sul banco degli imputati almeno tre volte: per aver demolito con chirurgica ferocia la più grande azienda metalmeccanica d’Italia (ovviamente la Fiat), per aver distrutto il più grande impero giornalistico di questo Paese (ovviamente il gruppo Espresso-La Repubblica), per aver rottamato l’eredità familiare e umana di una dinastia, fino a ritrovarsi con il primogenito imputato, in una vicenda di tasse non pagate, eredità contese, mamme ingannate, fino ad essere costretto alla richiesta di una messa alla prova, per evitare il processo.
A questo primo folgorante bilancio di sintesi andrebbe aggiunto che anche la Ferrari e la Juventus, dopo anni di trionfi, arrivano alla stagione della crisi. Woody Allen diceva: «Dio non esiste, Marx è morto, e io stesso non mi sento affatto bene». L’unica cosa certa è che questi Agnelli, imberbi ed esangui godono del tocco di Re Mida rovesciato: ogni cosa che sfiorano finisce in rovina. Tuttavia va anche aggiunto che di loro si dice: «Però sono bravi nella finanza». Bravissimi, non dubito.
Domanda: ma se questo bilancio sui loro insuccessi è una opinione largamente diffusa, come mai (salvo casi eroici) non la si trova mai scritta nero su bianco? Non so dare una risposta: l’antica regola passiva della stampa italiana, forse – cane non mangia cane – unita ad una capacità ottusa e feroce di esercitare il potere: nei licenziamenti e nelle decapitazioni gli Agnelli diventano improvvisamente lupi, e ne sa qualcosa quel galantuomo di Carlo Verdelli, che da direttore di La Repubblica fu licenziato dal suo nuovo editore, nel primo giorno in cui gli era stata assegnata una scorta. Chi combatte contro le frasi fatte, in questo caso faticherà a negare che il buon giorno si vede dal mattino. Ghigliottina.
L’agonia drammatica di Stellantis, già Fca, già Fiat, ci parla di un gioiello della nostra tradizione industriale nazionale smontato nella narcosi totale di classi politiche distratte o fiancheggiatrici, fino ad essere svuotato di tutto: manager, brevetti, modelli, capacità creativa, orgoglio industriale. Restano solo operai in cassa integrazione a vita, come scudi umani. Io ogni volta che vedo la cosiddetta “Nuova Ypsilon” (in realtà una Peugeot 2008 malamente truccata), vengo colto da un fenomeno rarissimo in chi ama le auto, rimpiango il modello precedente: la Ypsilon, un longseller, un miracolo del design italiano partorito da Olivier Francois, con quel suo sederino sexy, la linea accattivante ed essenziale, le misure perfette, in cui qualche genio era riuscito a incastonare persino cinque porte. Grazie a questi capitani d’industria noi italiani, che abbiamo inventato il design di eccellenza, abbiamo regalato ai cinesi persino la possibilità di dire: wow, che macchina!
Perché i modelli di Sergio Marchionne erano tutti belli, filanti, pieni di vita, e quelli partoriti in questi anni colonizzazione francese en camouflage, sono tutti incredibilmente brutti. C’entrano gli Elkann con questo destino? Sicuramente sì, se il loro impegno nella Fiat ha prodotto come unico risultato indubitabilmente apprezzabile la spartizione dei dividendi per gli eredi rentrier della famiglia esangue. A pagare il costo di questi meravigliosi mantenimenti sono gli operai del Piemonte, dell’Abruzzo, della Campania, che oggi producono meno auto del 1955, quando – per dire – in Italia non c’erano ancora le strade.
L’ultimo capolavoro rovesciato dei Re Mida al contrario, tuttavia, è quello che arriva al suo drammatico epilogo proprio in queste ore, e riguarda il gruppo Espresso- Repubblica: il più grande gruppo editoriale democratico d’Europa, quando le sue redini passarono nelle mani dei capitani d’Industria Elkann (ci ricorda Prima comunicazione) poteva vantare tre quotidiani nazionali, una capillare catena di quotidiani locali e 700 milioni di ricavi. Nel 2017 iniziò lo spezzatino e la svendita dei gioielli di famiglia (tra questi c’era anche il Centro, che per fortuna è caduto subito in altre mani, più meritevoli). Oggi, di quella enorme catena di quotidiani locali, nel gruppo non ne resta uno. Le notizie di queste ore ci parlano dell’atto finale di un ennesimo dramma liquidatorio: mentre John Elkann sta scontando la messa alla prova (dopo aver dovuto pagare allo Stato 183 milioni di euro per chiudere il processo sull’eredità), già dismessi ingloriosamente L’Espresso e il Secolo XIX, ora si vendono precipitosamente anche La Stampa, La Repubblica, le tre radio del gruppo, l’agenzia pubblicitaria che un tempo era un bancomat di profitti.
Questa cessione avviene in un clima avvelenato che (giustamente) ha portato i giornalisti de La Stampa a scioperare, e che (giustamente) porterà i giornalisti di La Repubblica a scioperare. Il piccolo principe Elkann, lo stesso che dieci anni fa parlava entusiasta a Mario Calabresi della Gazzetta di Buffalo (comprava il giornale di Scalfari e aveva come modello Buffalo news, fondato nel 1876!) si è stancato di giocare al piccolo editore. Il resto è il circo di queste ore. Un turbine di compratori fantasma, offerte rifiutate da specchiati imprenditori italiani, un compratore greco con simpatie a destra, la necessità questuante di ottenere un nulla osta da Palazzo Chigi: basterebbe questo riassunto per spiegare il cataclisma.
Tuttavia, di questa Caporetto non si può dire: «Sono affari loro, sono solo affari di famiglia». Gli agnelli esangui non hanno costruito nulla dei mondi che stanno distruggendo, ne sono soltanto i rottamatori. Si potrebbe persino dire, all’avvicinarsi del compleanno di mezzo secolo della più importante testata del gruppo: ciò che è stato costruito da Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo in cinquant’anni di storia, intelligenza sangue e passione, è stato distrutto in soli cinque anni di tabula rasa lobotomizzata. A loro modo, dunque, gli Elkann un record lo hanno fissato. Dicono che sono “delusi” dai loro giornalisti, che avrebbero voluto essere difesi con più entusiasmo mentre loro erano sotto processo. Mi astengo da qualsiasi commento.
La spiegazione più semplice è che i giornali sono stati la conseguenza della Fiat: per far sparire una azienda ultra-centenaria dall’Italia, spegnerla, spostare sedi legali e amministrative per non pagare tasse, provare a mettere bandierine tricolori di serie su quadricicli prodotti in Marocco, tenere a spese dello Stato quei lavoratori scudi-umani in cassa integrazione permanente non bastavano né la benevolenza né un gioco di prestigio: era necessario comprarsi un pezzo di informazione, per oscurare le notizie e coprirsi le spalle.
Finito questo saggio di magia tarocca, quell’impero ridiventava ai loro occhi un giocattolo inutile. Il problema è che non riguarda loro: riguarda noi. Siamo stati usati tutti, come i pupazzetti del Monopoli, dai maghi della finanza da tavolo. Un Paese in cui un enorme gruppo editoriale si spegne dalla mattina alla sera, è un paese in cui tutta l’informazione libera è meno libera. E un Paese in cui tutta l’informazione libera è meno libera è un Paese in cui la democrazia è a rischio.
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