L’editoriale

La sinistra finisce al tappeto: cercasi leader disperatamente

29 Maggio 2025

Silvia Salis, che bello quando un nuovo personaggio si fa largo a sportellate sulla scena: eloquio lineare, oratoria essenziale ma anche elegante e forbita

Adesso che la polvere dell’adrenalina elettorale si è posata, ora che il pallottoliere dei risultati è fermo, è il momento opportuno per una analisi dei risultati del grande sconfitto di questa tornata amministrativa: il centrosinistra abruzzese. E poiché un voto politico non è mai un dato isolato, ma è sempre l’espressione di un clima, di un momento, di un sentimento collettivo, bisogna aggiungere che la castrazione dei ballottaggi a Ortona e Sulmona mi interessa molto, perché è una perfetta fotografia di cosa non funziona nella classe dirigente dell’opposizione: zero costruzione di nuovi volti e di nuove proposte, candidati improvvisati o deboli, radicamento labilissimo nei tessuti sociali, scarsa aderenza ai problemi nuovi dei territori. Se – per dire – ci fosse un nuovo interprete che ha saputo incarnare una nuova battaglia sociale, mi scuso: io non l’ho visto. Se c’è un campione capace di raccontarci la nuova crisi della val di Sangro, deve essere una mia colpa, non me ne sono accorto. Se c’è un sindaco giovane, di un grande comune di questa regione, che abbia saputo costruire una maggioranza innovativa e realizzare progetti, deve essere sfuggito ai nostri sismografi. Ma le antenne del Centro su questi territori, bisogna ricordarlo, sono molto attente a tutto quel che si muove.

Guardavo in tv, lunedì sera, le prime interviste della grande vincitrice delle elezioni di Genova, Silvia Salis. Che bello quando un nuovo personaggio si fa largo a sportellate sulla scena: eloquio perfettamente lineare, oratoria essenziale ma anche elegante e forbita, contenuti intriganti e in parte nuovi. Un perfetto equilibrio di nuovo civismo e antica orgogliosa appartenenza. Ma, soprattutto: giovinezza e carisma. Mi sono chiesto: abbiamo una Salis in Abruzzo? Mi sono risposto: No. Il dato di Sulmona è deprimente: una giunta che aveva governato una legislatura si squaglia politicamente (può capitare) ma poi si dissolve nel nulla, per dissidi tribali, senza lasciare nessun frutto, né sul ramo dei contendenti pentastellati, né su quello dei loro critici. In tutta Italia, il centrosinistra conquista comuni e posizioni, in Abruzzo non si qualifica neanche per le finali. Conosco bene le argomentazioni dei dirigenti della coalizione, e soprattutto dei Dem: ma questa destra è clientelare - dicono - non rispetta il galateo istituzionale, esercita il potere e raccoglie il consenso con spietatezza geometrica. Bene, faccio un invito a chi vuole risorgere: cancellate ogni tiritera autoassolutoria. Riflettete su di voi, adesso, non occupatevi dei meloniani. Nel pieno degli anni Cinquanta, nell’Abruzzo soavemente e inossidabilmente democristiano, tanti sindaci di sinistra, con unghie e denti, erano riusciti a conquistare la fascia tricolore: basta pensare al padre dello spettacolare lungomare di Pescara, il sindaco comunista Vincenzo Chiola dal 1951 al 1956. Basta pensare alle imprese elettorali di Giulianova (“La Stalingrado di Abruzzo”, oggi civicamente a destra), o a Pescasseroli, dove in anni lontani, dalla battaglia di Franco Tassi per far demolire le villette abusive nel verde nacque una giunta proto-ambientalista e progressista.

In tempi più recenti il centrosinistra ulivista ha governato (e bene) L’Aquila, come dimostrano la risposta all’emergenza terremoto, e il cantieraggio efficace della ricostruzione di cui sta godendo anche il sindaco Pierluigi Biondi: ma io non dimentico la fatica che tutto questo costò a Stefania Pezzopane, e – soprattutto : lo strappo simbolico di Massimo Cialente che fu costretto a spogliarsi della fascia, tricolore e a duellare nientemeno con Giorgio Napolitano per chiedere impegni e fondi. I dirigenti di oggi sembrano aver dimenticato questo passato prossimo. A Pescara poi basta guardare le torri neoclassiche e il futuristico ponte del Mare, che accolgono qualunque visitatore, per ricordare cosa ha prodotto la stagione riformista di Luciano D’Alfonso. Quando la politica arriva a parlare la lingua della simbologia architettonica, il giudizio esce dai cardini friabili della politica per passare a quelli più robusti della storia.

Ecco perché la domanda torna, ancora più pressante: e oggi? Qualcuno ha visto una Salis abruzzese? Un nuovo leader di centrosinistra? La risposta è no, e la spiegazione è semplice: non ci sono avvistamenti perché questo nuovo leader – locale o regionale – se anche ci fosse, nessuno lo cerca. Seconda immagine: ho seguito il recente tour di Maurizio Landini in Abruzzo a sostegno dei referendum su sicurezza del lavoro, precarietà, cittadinanza. Questi quesiti si possono condividere in tutto, in parte, o per nulla: ma a sinistra, per ora, sono l’unica a battaglia di contenuto che sia stata messa in campo.

In quella densissima giornata referendaria restavo completamente stupefatto nel constatare che nessuno (nessuno!) dei dirigenti delle varie sinistre seguiva questo tour. A San Salvo l’intervento di Landini era stato addirittura preceduto da un galante saluto della ex sindaca e attuale assessora regionale del centrodestra, Tiziana Magnacca («Anche nella diversità delle opinioni non possono mancare per me il rispetto dell’impegno e delle idee che voi qui rappresentate!»). C’era lei, possibile candidata ma nessuno dei colonnelli dell’opposizione. Ad essere brutali si potrebbe fare questa ricostruzione: a parte il senatore Michele Fina, impegnato a Roma come senatore e tesoriere nazionale del Pd, a parte la lodevole eccezione dell’inossidabile D’Alfonso (che organizza convegni di contenuto ovunque), e di Luciano D’Amico (onnipresente, ma privo di scorte di apparato), con l’unica eccezione dei giovani del Pd, oggi sui territori l’attività di una intera coalizione è vicina allo zero. Anche le catene di trasmissione sono allentate: a Sulmona per il centrodestra sì sono mobilitati tutti, da Arianna Meloni a Salvini. Ma non si sono visti leader di centrosinistra

Nella campagna referendaria, dunque, la Cgil ha sostenuto da sola lo sforzo terribile di montare palchi, riempire piazze, dare voci a nuovi e nuove italiane (che ragazza straordinaria e carismatica ha parlato in piazza a San Salvo!), a lavoratori simbolicamente importanti, a intellettuali coinvolti nella sfida civile. Se c’era la nuova Silvia Salis, su uno di questi palchi, difficile che qualcuno potesse notarla.

Ed ecco allora il punto, dolente, con cui la sinistra deve fare i conti. Questo giornale non ha lesinato critiche al centrodestra sugli episodi più controversi della sua esperienza di governo: improbabili voci di spesa nelle leggi mancia, buchi vertiginosi nella gestione delle Asl, stipendiucci d’oro che ogni tanto scappano fuori di qua e di là ai famigli: compito dell’informazione è vigilare, e noi lo facciamo chiunque governi. Tuttavia il centrodestra amministra, e continua a vincere in questa regione perché il consenso lo ha. Poi perché mette in campo una classe dirigente molto diversificata e ricca che copre ad ampio spettro tutte le esigenze del mercato elettorale: perché l’assessora Magnacca è diversa da Biondi, perché Sospiri è ben diverso da Marsilio: tuttavia questa squadra si scontra, ogni tanto si manda a quel paese, ma non nasconde la polvere sotto il tappeto, e non perde la sua solidarietà di maggioranza. Marciano divisi, ma colpiscono uniti. L’immagine dell’opposizione che a Ortona viene cannibalizzata da un civismo informe, ma non riesce a raccogliere il 20% dei voti per andare al ballottaggio è drammatica. Tuttavia oggi non c’è dibattito nei partiti sul loro dato elettorale: pessima reazione. Quando la Dc si chiudeva in conclave a riflettere saltava fuori la prodigiosa sintesi letteraria (rileggersi quel capolavoro) del Todo Modo di Leonardo Sciascia. E restò famosa l’ironica, ma fantastica stoccata di Amintore Fanfani in una non dimenticata assemblea dello scudocrociato: «Potete non essere in grado di darmi una soluzione a tutti i problemi, ma avete l’obbligo di mettere in fila una convincente analisi di tutti gli errori». in un bel documentario sui comizi di Enrico Berlinguer in Abruzzo c’è uno strepitoso aneddoto di un ex dirigente del Pci su una giornata speciale: «Dopo che tre compagni si erano avvicendanti sul palco prima di lui, spiegando perché eravamo bravi, impeccabili e migliori dei nostri avversari, Berlinguer si girò con una espressione indescrivibile e disse: «Temo che prima di vantare, da sconfitti, primati e virtù ci si debba preoccupare di raccogliere il consenso e vincere».

Ed ecco che da queste luminose memorie novecentesche si torna sempre al dunque: nulla è cambiato, sulla necessità dell’inventario dei problemi e della raccolta degli elettori. All’opposizione in Abruzzo mancano sia i primi che i secondi. Temo – ad esempio – che alla Pilkington, non ci fosse nessuno ad immergersi nelle inquietudini degli operai di eccellenza (ma a rischio cassa integrazione per la crisi dell’automotive), perché girare costa una fatica terribile. Temo che sul campo manchi radicamento perché le strutture basiche della coalizione di centrosinistra sono al loro grado zero: esistono macchine di apparato relativamente efficienti, ma spesso finalizzate esclusivamente alla meccanica delle campagne elettorali. Comitati ad personam, non centri di attività. Questo perché una classe dirigente di consiglieri-Mandarini amministra una rendita di posizione fornita dagli apparati e dalle indennità istituzionali, dalla disponibilità degli staff: benissimo, nulla di male, ma se si vuole vincere bisogna mettere gli stivali nel fango. Se poi quando vi immergete nel campo di battaglia vi capita di vedere una Silvia Salis, fatecelo sapere. Finché non c’è costruzione alternativa, in Abruzzo ci sarà soltanto Melonia.