La vedova del capo scorta del giudice Falcone: «Brusca libero, che giustizia è questa?». Tina Montinaro più volte in Abruzzo a parlare di legalità agli studenti

L’uomo che azionò il telecomando della strage di Capaci è tornato in libertà: a fine maggio sono trascorsi i 4 anni di libertà vigilata. Ecco l’intervista rilasciata dalla vedova Montinaro al Centro due anni fa.
Giovanni Brusca, il boia di Capaci, il capomafia che azionò il telecomando che innescò l'esplosione il 23 maggio del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, è libero.
A fine maggio sono trascorsi i 4 anni di libertà vigilata impostigli dalla magistratura di sorveglianza, ultimo debito con la giustizia del boss di San Giuseppe Jato che si è macchiato di decine di omicidi e che , dopo l'arresto e dopo un primo falso pentimento, decise di collaborare con la giustizia.
In tutto ha scontato 25 anni di carcere: roventi polemiche seguirono la sua scarcerazione e la decisione di sottoporlo alla libertà vigilata. Brusca continuerà a vivere lontano dalla Sicilia sotto falsa identità e resterà sottoposto al programma di protezione.
REAZIONI. "Ho appreso la notizia della liberazione definitiva di Giovanni Brusca. Lo so bene che è stata applicata la legge, ma sono molto amareggiata. Ritengo che questa non è Giustizia né per i familiari né per le persone per bene. A distanza di 33 anni i processi continuano e noi familiari non sappiamo la verità. Credo sia indegno che Brusca, per quanto abbia avuto accesso alla legge sui collaboratori di giustizia sia libero. Mi aspetto che la città si indigni dinanzi a questa notizia. Se è vero che è cambiata. Ritengo che non si possa rimanere indifferenti". Così Tina Montinaro moglie di Antonio, caposcorta del giudice Falcone, rimasto ucciso nella Strage di Capaci insieme ai colleghi Vito Schifani e Rocco Dicillo.
INTERVISTA AL CENTRO. Tina Montinaro è stata più volte in Abruzzo e ha incontrato gli studenti per dialogare sul tema della legalità. Ecco una intervista rilasciata al Centro il 22 maggio 2023: «Ripercorrerei tutta la mia vita. Sono orgogliosa di mio marito che ha cambiato il destino della Sicilia e dell'Italia. Che ha lottato per la giustizia e la libertà, sapendo bene i rischi». Tina Montinaro è la vedova di Antonio, che scortava Falcone a Palermo, di rientro dall'aeroporto di Punta Raisi. Sono trascorsi 31 anni. Alla vigilia della ricorrenza della strage di Capaci, Tina racconta del suo dolore, della battaglia per tenere viva la memoria del marito e degli altri agenti della scorta. E di uno Stato «latitante, incapace di rimarcare i valori di chi si è sacrificato per combattere la criminalità». La strage di Capaci ha segnato uno spartiacque nella sua esistenza: da quel giorno lei gira l'Italia per parlare di legalità e giustizia nelle scuole e all'interno delle associazioni. «È una missione», dice, «questi uomini vanno visti e raccontati come un esempio da seguire. Ritengo che altri, in questo Paese, avrebbero dovuto portare avanti la memoria di chi ha combattuto contro la mafia. Per affrontare certe battaglie occorrono un impegno costante, quotidiano e grandi sacrifici perché si toglie tempo ad altro e si viene totalmente assorbiti. Ci vuole forza: tocca a noi familiari delle vittime farlo».
Sono passati 31 anni dalla morte di suo marito Antonio. Ha capito immediatamente che doveva fare qualcosa perché l'Italia non dimenticasse troppo in fretta?
Non subito. Il dolore era lacerante. Inoltre, avevo due bimbi piccoli, di un anno e mezzo e 4 anni, rimasti orfani del padre. Dovevo pensare, innanzitutto, a loro. Gaetano, il primogenito e Giovanni, il secondo. È facile capire perché lo abbiamo chiamato così. Ho dovuto rimboccarmi le maniche e affrontare da sola una vita che non avevo scelto. Non siamo stati neppure messi sotto protezione, erano tempi diversi rispetto ad oggi che la scorta si dà a tutti. Ci siamo protetti dal soli, con amore e uniti nel ricordo. I miei figli avevano subìto un trauma enorme: quando sono cresciuti e hanno iniziato a capire, ho detto loro che il papà, Antonio, non apparteneva solo a noi ma all'Italia intera. Antonio, Rocco e Vito: gli agenti della scorta del giudice Falcone. Li ricordiamo così. La mia battaglia è stata proprio questa: non erano solo "la scorta" ma uomini con le loro famiglie, con un cuore e ideali profondi, che avevano compiuto una scelta consapevole e difficile. Il vero obiettivo è farli conoscere in questa veste.
Lei si è sempre rivolta, soprattutto, ai giovani. Perché?
Per indurli a capire, a sapere cosa è accaduto tre decenni fa, e a porsi domande. Le giovani generazioni devono essere consapevoli del passato, di cosa hanno fatto Falcone e i suoi per il nostro Paese. Al tempo si moriva tutti i giorni di mafia e sangue: erano molo giovani, ma hanno compiuto una scelta importante che ha cambiato Palermo. Una città che prima si chiudeva dietro le persiane, omertosa, diffidente. La gente non parlava, non si presentava ai funerali degli uomini di Stato. E quando qualcuno moriva ammazzato diceva "Se l'è cercata". Oggi Palermo e la Sicilia sono diverse, dicono no alla mafia, denunciano.
Da Capaci molto è cambiato, lei ritiene che la mafia sia stata finalmente sconfitta?
Non viviamo in un'isola felice, abbiamo ancora tanta strada da fare: è per questo che porto la mia testimonianza dappertutto. Così ho scoperto un'Italia bella, solidale, che mi accoglie con commozione e ricorda persino cosa stava facendo quel giorno. Quando in televisione ha visto le immagini della strage.
Dopo la morte di suo marito ha scelto di non lasciare Palermo. C'è un motivo?
Palermo è la mia città. Sono rimasta sempre lì con i miei figli, pur essendo napoletana e mio marito leccese. Del resto, mio figlio Giovanni è nato a Palermo, dove ho sposato Antonio, e in quella terra mio marito, entrato in polizia a 18 anni con destinazione Bergamo, aveva deciso di trasferirsi per scortare il giudice più a rischio del Paese.
Come apprese la notizia dell'attentato?
Mi chiamò un'amica che voleva sapere dov'era Antonio. Io non dicevo mai, per telefono, dove si trovava, ma mi ha informata che c'era stato un attentato al giudice Falcone. In quel momento esatto, ho capito che era finita. Ricordo le telefonate al 113, la corsa in ospedale, l'attesa fuori dall'obitorio.
Le immagini della strage che passano in televisione rinnovano, ogni volta, il dolore di quel giorno?
Le guardo con gli stessi sentimenti di allora, ferma nella mia posizione: quello che provavo non è cambiato con il tempo. La voragine sull'autostrada A19 è entrata per sempre in casa mia, inghiottendo la mia famiglia. Ma è tutto ciò che è venuto dopo che mi dà un enorme fastidio. Lo ritengo una grande mancanza di rispetto nei confronti delle vittime e dei familiari.
A che cosa si riferisce?
Ai pentiti, che sono già fuori. Come Giovanni Brusca, che ha premuto il pulsante della strage o sciolto il piccolo Giuseppe Di Matteo nell'acido. Potrei elencarne tanti altri. Mi fa male saperli liberi. È vero che qualche collaboratore di giustizia è servito per colpire la mafia, ma questo non significa che dobbiamo mantenerli per anni e poi trasformarli in persone per bene. Ciascuno di noi porta nel cuore il proprio dolore che non possiamo condividere. Ma tutti si ricordano di Antonio, Rocco Vito. È la loro vittoria. I mafiosi, anche se pentiti, continuano invece a fare una vita buia. Hanno perso e si devono vergognare per quello che sono. I nostri figli camminano a testa alta, con dignità. I loro devono abbassare il capo.
Quale era il rapporto con Giovanni Falcone?
Non lo conoscevo di persona perché era un uomo blindato. Sapeva che avrebbe fatto quella fine e lo sapeva anche mio marito. Antonio lo rispettava tantissimo, aveva la consapevolezza che Falcone doveva essere protetto per quello che stava facendo e che era un persona preziosa. Mi fece capire l'importanza del suo lavoro per sradicare la mafia e mi disse che non lo avrebbe mai lasciato solo. Ha mai rimproverato a suo marito di aver fatto quella scelta? No, ne sono orgogliosa. Ci sono donne che hanno accanto per 50 anni uomini che non servono a nulla, meschini, criminali. Io non cambierei un passo della mia esistenza. Antonio mi manca tanto. Ma, con Falcone e gli altri, ha cambiato la storia dell'Italia. Avrei solo voluto più attenzione dallo Stato, che dimentica troppo facilmente. Il 3 maggio è uscito il suo libro "Non ci avete fatto niente (De Agostini) rivolto ai giovani di elementari e medie. Il titolo è emblematico: la mafia non ha vinto. Hanno trionfato libertà, legalità e giustizia. Il libro sta avendo successo perché si rivolge alle generazioni future, gli uomini di domani. Devono studiare, essere consapevoli, conoscere il passato. E vivere con onestà. La mafia ha cambiato pelle. Come riconoscerla oggi? È stato preso anche Messina Denaro, l'ultimo degli autori delle stragi, e la sua cattura ha segnato una profonda svolta, ma la mafia esiste ancora. Ma la mafia non è più quella del tritolo. I nuovi mafiosi sono anonimi e invisibili, ma colpiscono ancora e distruggono, oggi come allora. È la mafia dei colletti bianchi, delle sentenze pilotate, dei criminali in giacca e cravatta, dei ricatti e dei condizionamenti. Una mafia che si è evoluta ed è questa che va sradicata con la cultura dell’onestà.