Piervincenzi, un missionario del giornalismo: «Consumo scarpe per raccontare storie»

L’intervista all’ospite d’onore del Premio Russo: «Dopo quella capocciata di Spada sembrava strano che mi occupassi d’altro. Mi sono dedicato alle mafie. Ma prima ho fatto tanta gavetta, anche fotocopie»
FRANCAVILLA AL MARE. C’è un intruso nel panorama greve del giornalismo italiano. È un reporter gentile, in un mondo di cronisti scorbutici ed egocentrici. Come se non bastasse è anche bello, ha i capelli e un fisico da sportivo, in un mondo di pancioni, pelate e decadenze assortite. Dulcis in fundo, anziché raccogliere veline o ricicciare agenzie e articoli di altri, lui le notizie le va a prendere boots on the ground. Stivali a terra.
È per questo, Daniele Piervincenzi, che ha vinto il premio dedicato al grande Antonio Russo, perché lei non legge le veline?
«No. È che io sono fortunato».
Solo fortuna?
«Vengo dallo sport. Sono un ex rugbista che ha avuto la fortuna di essere cresciuto professionalmente a La7».
Ma non come inviato…
«Prima ho fatto la gavetta, giustamente. Lo sport, poi i programmi del mattino: dalle fotocopie alle scalette. Poi la fortuna vera, essere mandato a Otto e mezzo».
Con la signora del giornalismo italiano?
«Sì, con Paolo Pagliaro e Lilli Gruber. Quella è davvero una trasmissione seria».
Perché?
«Si fa il matching degli ospiti, non si cerca la faccia, ma il contenuto. Quello che interessa per mettere insieme le persone è sapere quello che hanno da dire, come la pensano. Non chi siano o cosa rappresentino».
Era il ragazzino della redazione?
«Sì. È stata una grandissima palestra. Poi con un fuoriclasse come Paolo Pagliaro. Nella mia vita, ho trovato solo una persona in grado di dire: ragazzi in campana, che fra quindici giorni si parlerà di questo. E quindici giorni dopo – cascasse il mondo – proprio quello era il grande tema. Un grande giornalista».
Quale è il grande giornalismo, allora?
«Il giornalismo complesso, quello che affronta tutte le sfaccettature del problema. Ma che riesce anche a tradurle in un linguaggio semplice. La complessità resa comprensibile a tutti. Quello è stato l’innesco».
Poi?
«Dopo 600 puntate vedevo i miei colleghi, che si erano dedicati all’approfondimento, al talk, all’analisi. Io invece volevo altro».
Cosa?
«Raccontare storie».
E allora hai tradito la Gruber?
«Sì, e lei si è anche un po’ risentita. Andai a fare Nemo, un programma su Rai 2, molto sperimentale, in cui noi volevamo, sostanzialmente, svestire i panni del giornalista per cercare di fare storie immersive».
Ammetto di non capire.
«L’obiettivo era calarci il più possibile nella realtà. A Nemo ho fatto un po’ di tutto, dai fronti di guerra alla mafia, che era una mia vecchia passione».
E fu lì che prendesti la famosa capocciata…
«Sì, la capocciata di Spada».
A parte il cerottone sul naso, quali conseguenze ebbe?
«È stata, forse, la fine di quella libertà da cronista che avevo avuto sino ad allora».
Addirittura?
«Sì, perché dopo quella capocciata sembrava strano che io mi occupassi della visita del Papa in una periferia disgraziata come Corviale o andassi in Valle d’Aosta tra i montanari a seguire le scommesse del Rodeo della Vacca regina (la Bataille de Reines, una battaglia in cui le vacche si sfidano a colpi di corna, ndr)».
Quindi?
«Mi sono dedicato solo alle mafie».
È costata molto quella capocciata…
«Moltissimo. Dopo la fiammata mediatica iniziale, solo fastidi. La tutela dei carabinieri per mesi, difficoltà familiari, l’essere fermato per strada e riconosciuto come “quello della capocciata”, ma, soprattutto un grandissimo disagio».
Quale?
«Quello di essere diventato la notizia, non più quello che la racconta».
Sono passati quasi 8 anni, era il novembre del 2017. Ora i disagi son trascorsi, immagino.
«Sì, ma onestamente devo ammettere che l’episodio mi spinse ad approfondire la criminalità romana, poi ad inquadrare le mafie tradizionali in un altro programma».
Mappe criminali…
«Precisamente. Su Sky, sei puntate. In primis sulla ‘Ndrangheta, poi sulle diramazioni delle mafie romane, e infine su Cosa Nostra, con già allora un focus su Matteo Messina Denaro».
Non proprio un talk…
«Mi piacque molto, perché avemmo l’opportunità di fare delle puntate lunghe, con un taglio documentaristico. Per me è stata una passione vera immergermi nella conoscenza dei gangli della ‘Ndrangheta».
Roba da studioso, direi.
«È vero, perché la conoscenza delle procedure e del funzionamento dei tre mandamenti, Centro, Tirrenico e Jonico è sconfinata. Ho letto tanto, migliaia di pagine di carte».
Poi le guerre.
«Sì, cominciai con una breve avventura in Libia, nel 2011-2012, quando ci fu la guerra civile libica».
Quindi lo scoppio della guerra in Ucraina.
«È stato il momento della grande scelta. Avevo 40 anni e mi sono detto che questa sarebbe stata la grande guerra di questa epoca. Sentivo di doverla vedere, di doverla raccontare, di dover toccare con mano, odorare, respirare».
Per chi lavoravi?
«Avevo un contratto con Rai2, che, ovviamente, mi proibì di andare in Ucraina».
Quindi hai rinunciato…
«Eh, no! Quindi ho rescisso il contratto con Rai 2 e sono partito, come un pazzo. L’ho fatto come un vero freelance, tutto a spese mie».
Come?
«Affittai un’auto a Trieste. Ero completamente da solo: un telefono, una GoPro, e la voglia di esplorare un fronte che non fosse quello di Kiev, dove ero arrivato all’inizio, ma quello sud. Secondo me era molto più interessante e ancora poco raccontato».
Avesti ragione?
«Non so, ma arrivai molto presto, prima di altri. Aver, in qualche modo, letto la situazione, conosciuto un po’ di soldati, di fotoreporter importanti, mi ha permesso di mappare quel fronte, soprattutto quell’inizio di guerra, che rispetto a quella di oggi sembra quella della Prima guerra mondiale: trincee, cannoni, assalti con i kalashnikov».
Chi ti fece strada?
«Anche lì ho avuto fortuna, molta. Ho conosciuto Tyler Hicks, un grande fotoreporter del New York Times. Siamo stati insieme per quasi un mese a girare quel fronte. Un'esperienza estremamente intensa. Tanto che a un certo punto ho sentito di dover tornare a casa, dalla famiglia, dai figli, perché ho cominciato a commettere degli errori».
Quali?
«Perdere la misura nel valutare le situazioni, nello spingermi troppo oltre, nell’assumere dei rischi che non avevano nessun senso, che non portavano a nessun vantaggio».
Un esempio.
«Frequentavo un bar di Mykolaïv in cui facevano il caffè. Avevo scoperto che in quel bar la mattina passavano i soldati che smontavano dalla prima linea. La città era assediata, e quindi si combatteva proprio a ridosso dell’abitato. I soldati, distrutti dalle nottate in trincea, di guardia, andavano a ristorarsi lì. Andavo spesso in quel locale per carpire informazioni, per fare delle conoscenze, per farmi vedere. Un giorno capii che c'era stata una grande battaglia in cui, per la prima volta dall'inizio della guerra, i russi erano stati respinti».
E quindi?
«Presi la macchina per andare a vedere coi miei occhi. Arrivai in un paesino, un villaggio, distrutto. La strada era impraticabile, piena di detriti, di battaglia».
Questo racconto non giunge al punto, però!
«Ci arrivo subito: mi fermano in mezzo alla strada, poco fuori Mykolaïv, un gruppo di battaglia di ragazzi che avevano appena combattuto. Mi dicevano: dove vai? sei pazzo? vieni subito qui. Mi fanno nascondere l’auto in un capannone, dove c’era anche un loro carro armato. Poi mi tengono in una cantina con loro, perché erano investiti dal bombardamento. Io ero arrivato in un unico momento di pace di quella giornata».
Per farla breve?
«Mi assegnarono a un giovanotto di 22 anni. “Pensa tu a questo!”. Il ragazzino mi comandava a bacchetta: “Adesso mangia la zuppa, adesso fuma una sigaretta, ora ti puoi levare l’elmetto, ora mettiti l’elmetto. Ora sta’ tranquillo; ora no, sei troppo tranquillo”. Mi gestiva, perché non sapeva come avrei reagito alla paura. E quando sono cominciati ad arrivare i missili lì sopra, sul garage, quando tutto tremava come in un film, ho capito lui perché mi governava».
Perché?
«Sapeva che il mio primo istinto sarebbe stato quello di scappare».
Quanto è durato?
«Tredici interminabili ore bloccato sotto le bombe russe. Un incubo».
Paura?
«Molta. È stata la prima volta che ho guardato negli occhi la guerra».
Quel momento è stato il segnale che stavi andando troppo oltre?
«Sì, le bombe mi hanno fatto capire che cominciavo a perdere un po’ la misura di quello che mi stava succedendo intorno. Dopo più di un mese, sono tornato a Roma per cercare di riprendere il contatto con la vita familiare, con l'altra realtà».
Hai due figli. Capiscono già cosa rischia il papà?
«La mia figlia maggiore, ora, sì. Ha quattordici anni e, ovviamente, comprende e si preoccupa. Ogni tanto finge di astrarsi, ma a riportarla alla realtà ci pensano i suoi amici e compagni, che mi seguono su Instagram. Il piccolo, che ho lasciato prima della guerra in Ucraina sdentato e ho ritrovato come un coniglietto con due strani incisivi, ancora no. Ha quattro anni. Ma non penso che durerà a lungo».
I fatti che descrivi, guerre di eserciti o di mafie, si capiscono solo osservandoli dal vivo, o è necessario anche essersi preparati, aver letto e studiato?
«Il contatto diretto con il territorio e con le persone che vivono in quei luoghi è fondamentale. Ma non è mai possibile dipingere e un quadro preciso della situazione senza arrivare con una cultura propria».
Spiegami.
«Puoi conoscere il territorio della ‘Ndrangheta, ma se non hai letto Corrado Alvaro, non lo capisci. Occorre una visione ampia che ti permetta di planare, di capire fra le righe, fra le relazioni, anche di sangue, di famiglie, di locali».
Esistono davvero i giornaloni che “conformano” l’informazione?
«È vero, secondo me, che esiste un setaccio che filtra la narrazione, la informa, le dà una foggia. In questo periodo storico le maglie del setaccio sono molto più fitte».
Dove?
«In Rai, ad esempio, avverto che c’è questo filtro che in qualche modo dà una prima scrematura. Ed è una cosa molto preoccupante. Perché poi...».
Ma sei censurato? Ci sono cose che non hai potuto dire?
«Posso dire tutto. Il problema è che tutto quello che dico, però, viene pesato con molta più attenzione di quanto non avvenisse prima. E, per fugare ogni dubbio, la bilancia che si usa non ha a che fare col merito, né è declinabile nel miglioramento del prodotto, né nell’offrire un’informazione il più possibile plurale».
Quindi è una bilancia tarata sull’appartenenza politica?
«Si avverte uno strano fumo. Ed è qualcosa che un po' mi spaventa».
Non ti spaventa di più, invece, che più o meno il 90% dei giornalisti lavori senza un contratto. Cioè lavori da precario? Precario viene da prex- precis, che vuol dire preghiera in latino. Cioè devi affidare alle preghiere la possibilità di lavorare.
«Eh, io sono un precario assoluto. Addirittura, non ho più un contratto neanche di esclusiva con la RAI, ma alla RAI io vendo dei servizi. Io me ne frego, per forza, perché so fare solo così. Però ci sono tanti altri come me che hanno enormi difficoltà. Quando vado nei posti, quelli brutti, a raccontare una storiaccia di mafia, spesso incontro colleghi molto giovani, spinti dal sacro fuoco del giornalismo. Ma con in tasca 8, 9, 10 euro massimo a pezzo. È vergognoso».
A questo si deve il successo senza quartiere delle veline e dell’informazione precotta?
«Purtroppo, quello che ti arriva lo pubblichi. Si è vittime della velocità e della fretta. Non ci sono più gli editori telesivi che ancora credono nel passo lungo. Che ti permettono di approfondire un argomento, di fare un’inchiesta, un reportage, di usare il tempo giusto per fare quello che deve esser fatto».
Beh, però l’Ordine e il Sindacato dei giornalisti ti tutelano. No?
«Campa cavallo. Io vado in guerra a mio rischio e pericolo. Non ho neppure l’assicurazione perché costerebbe talmente tanto che la RAI, di sicuro, non me la farebbe. Né io posso permettermela. Mentre un inviato Rai la ha».
Quanto costa una missione di un inviato della Tv pagata col nostro canone?
«Un inviato RAI con autista, fixer e operatore in 10-15 giorni di missione spende circa 25.000 euro».
Tu?
«Intorno ai 3.000 euro».
Per cosa?
«Le spese vive: il volo, gli alberghi, una macchina a noleggio, che di solito è la più scalcinata che hanno perché andare in certi posti, soprattutto in Ucraina, con le jeep vistose è pericoloso».
Chi c’è nel Pantheon del giornalismo di Daniele Piervincenzi?
«I direttori che imparano a leggere, a capire a innamorarsi del mondo, quindi Ryszard Kapuscinski, su tutti. Ilaria Alpi che la mia generazione ha imparato a venerare, col suo sacrificio. Luigi Barzini, il reporter viaggiatore, che faceva dei servizi straordinari. Nella vita speri di poter essere paragonabile a lui. Poi invece sei stretto in un servizio da tre minuti, mentre hai un mondo da riferire».
Chi fa il tuo lavoro come lo fai tu, ha da temere la concorrenza dell’intelligenza artificiale, dei social o dei telefonini con cui ciascuno si sente un reporter d’assalto?
«Andare fisicamente il più possibile vicino agli eventi, per capire, per avere un contatto diretto con la realtà con la fotografia, con quel frammento di situazione. L’intelligenza artificiale, sebbene possa imbastardire ancora di più l’oceano di fonti distorte nel quale uno si deve orientare, non mi fa troppa paura. Anzi».
Ma ti hanno mai fregato? Hai mai riferito una notizia non vera?
«Sì».
Ahi, ahi. Come hanno fatto?
«Il 7 ottobre, quel 7 ottobre, sono stato uno tra i primi a entrare nei Kibbutz dove era avvenuta la mattanza di Hamas. Quando arrivai, stavano ancora cercando di estrarre i cadaveri dalle case. Corpi di civili, di miliziani, di soldati. Quello che non ho capito immediatamente è che, oltre agli effetti dell’attacco di Hamas, le case erano state colpite anche dai tank israeliani accorsi per ripulire il teatro dell’attacco terroristico».
E quindi?
«Mi son fatto ingannare da una troupe di Channel 12, una tv israeliana al seguito dell’IDF, che diede la notizia che erano stati decapitati dei bambini. La riportai senza verificarla, perché in quel momento così convulso, avendo i colleghi a un passo, credetti alla loro versione e non verificai. Sbagliai».
Sei sempre stato molto critico nei tuoi reportage con Netanyahu e il suo governo. Ma davvero Israele non ha nessuna ragione, secondo te?
«Ah sì, certo. Il 7 ottobre è stato qualcosa di allucinante e penso che anche Israele abbia diritto ad esistere. Però io continuo a non capire l’exit strategy di Netanyahu e dei suoi. È colpa del passo breve del cronista, forse».
Spiegami.
«L’IDF, senza dubbio, ha messo sul campo un’aggressione a 360 gradi nei confronti dell’ANP, dei villaggi palestinesi in Cisgiordania come dei gazawi dentro Gaza. Gli israeliani sono un po’ come i russi, abili scacchisti. Quindi immagino che abbiano un piano, elaborato da anni. Ma io non lo capisco».
Cosa non ti fa ben sperare?
«Certo non è incoraggiante l’attività dei coloni in Cisgiordania. Dal 7 ottobre del 2023 si sono presi più territorio che nei 10 anni precedenti. Omicidi random, distruzione di villaggi palestinesi, hanno sradicato piantagioni intere di uliveti millenari solo per cercare di creare dei grandi tessuti urbani in cui concentrare tutti i palestinesi. Non so a cosa porterà questo contegno, se non a una futura inevitabile attività terroristica dei palestinesi di Cisgiordania. Ora abbozzano, come diciamo a Roma. Ma poi?».
Questa ultima guerra sanguinosa e crudele, chi l’ha vinta?
«Temo che Israele, purtroppo, pagherà caro il suo comportamento. Israele era di fronte a un bivio».
Quale?
«Dimostrare di essere la grande democrazia del Medio Oriente o mostrare un’iper-aggressività reattiva, con tendenze autoritarie. Ha scelto la declinazione bellica indulgendo a una deriva messianica ultraortodossa. È un peccato, perché Israele al suo interno, per come io l’ho conosciuto, è veramente un luogo di libertà, di cultura, di grande tolleranza».
Oggi riceverai un premio prestigioso, roba per veri e coraggiosi reporter. Ai giovani colleghi, che consiglio daresti?
«Consigli non ne saprei dare. Ma so dire loro che, ormai, quella del giornalista non è più una professione».
E cosa è?
«Un mestiere, perché prevale l’aspetto artigianale. La vocazione, la passione sono, di fatto, l’unica benzina che consente al motore di muoversi. Anzi, se mi consenti un po’ di retorica…».
Prego.
«Ancor più che un mestiere, il consumare le scarpe e il sacrificio sono le forme più pure di giornalismo. È una missione».
E così sia, Daniele da Primavalle, Missionario.
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