13 GIUGNO

12 Giugno 2023

Oggi, ma nel 1799, a Napoli, al Forte di Vigliena, nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, si consumava lo scontro tra i sostenitori della Repubblica partenopea, sorta il 23 gennaio precedente e che concluderà la sua esperienza il 22 giugno successivo, e lo schieramento sanfedista, comandato dal cardinale Fabrizio Ruffo. La storica costruzione, risalente al 1702, voluta dal viceré Juan Manuel Fernandez Pacheco, primo marchese di Villena, era difesa da 150 componenti della Legione calabra, alla testa dei quali vi era il sacerdote di Corigliano calabro, Antonio Toscani.

Il fortilizio in tufo veniva attaccato da tre battaglioni calabresi dell’armata cristiana reale della Santa fede in nostro Signore Gesù Cristo, guidati dal tenente colonnello Francesco Rapini. L’abate Toscani, constatata l’impossibilità di avere la meglio, tantomeno di resistere, sceglieva il martirio: dando fuoco alle polveri. L’esplosione uccideva un imprecisato numero di difensori e assalitori oltre a sventrare il fabbricato (nella foto, particolare, il cartello che ricorderà l’estremo sacrificio di quel 13 giugno 1799, posto davanti ai resti del castello, dichiarato monumento nazionale). Che, benché fosse alto solo 6 metri, con i suoi 9 cannoni, 7 di grande calibro, orientati verso il mare, 2 minori, puntati a terra, rappresentava un importante elemento di difesa verso il porto.

L’evento attirerà l’attenzione di Alexander Dumas padre, che ne scriverà nella sua raccolta in 7 volumi, “I Borboni di Napoli”, del 1862, uscita con il giornale del capoluogo campano “L’Indipendente”, di cui sarà direttore. Lo scoppio del fortilizio e le ingenti vittime facevano infuriare i sanfedisti calabresi che passavano ad assaltare il castello del Carmine, nel quartiere Mercato, edificato nel 1382 da Carlo III di Durazzo. Cadranno poi gli ultimi presidi repubblicani cittadini: Castel dell’Ovo, Castel Nuovo e Castel Sant’Elmo. La fortezza di Pescara, invece, retta dal Consiglio supremo temporaneo, proclamato all’inizio dell’anno, e presieduto da Melchiorre Delfico, si arrenderà per ultima all’armata borbonica, il 30 giugno.