22 MAGGIO

21 Maggio 2023

Oggi, ma nel 1849, a Torino, nella piazza d’armi, veniva giustiziato il generale di divisione Gerolamo Ramorino, di 57 anni, genovese d’origine, condannato alla pena capitale dopo essere stato accusato di presunto tradimento e reputato reo della disfatta della battaglia di Novara, del 23 marzo precedente, contro le forze austriache. L’alto ufficiale, incolpato insieme al pari grado polacco Wojciech Chrzanowski, che aveva comandato l’armata del regno di Sardegna nello scontro della Bicocca, era il capro espiatorio della batosta rimediata contro l’esercito del feldmaresciallo Joseph Radetzky, nel contesto della prima guerra d’indipendenza.

L’ex governatore di Varsavia, dal 18 agosto 1831 al 6 settembre 1831, scelto dal sovrano sabaudo Carlo Alberto, riusciva a riparare in Louisiana, e poi dall’America a trasferirsi a Parigi, dove passerà a miglior vita il 26 febbraio 186. Ramorino era stato condannato a morte in base all’articolo 259 numero 5 del codice penale militare del 1840 che, in buona sostanza, sanciva la pena estrema anche per colui che avesse impedito il buon esito di un’operazione bellica. Nel caso specifico gli era stata imputata la negligenza di non aver saputo bloccare il passaggio del fiume Gravellone, nel territorio di San Martino Siccomario, alle porte di Pavia.

Aveva ritenuto più opportuno schierarsi alla destra del Po e attirare i nemici a Voghera. A Novara erano poi periti 578 militari piemontesi ed i feriti erano stati 1405. Mentre tra le fila asburgiche i decessi erano stati 410 e 1850 i ricoverati nell’ospedale da campo. La reale negligenza di Ramorino rimarrà incerta, così come la sua posizione di fedeltà nei confronti dell’incarico affidatogli da Carlo Alberto Savoia: un patriota e abile stratega nonostante l’esito infausto oppure un traditore vinto dalla codardia? Il processo era stato un evento di grande portata per le gerarchie militari, ma anche per la cittadinanza. Inutile era anche stato il tentativo di Angelo Brofferio, quale avvocato difensore.

L’ultimo atto (nella foto, particolare, stampa tratta da pagina 326 del volume “Storia d’Italia contemporanea”, di Luigi Stefanoni, edito da Perino, Roma, nel 1885) per ribadire la sua buona fede verso l’addebito mossogli era la richiesta, accordatagli, di comandare, in virtù del suo lignaggio, il plotone d’esecuzione deputato alla sua fucilazione.