Brodetto di pesce vastese: storia, tradizione e origini

23 Dicembre 2025

Il contributo dell’ex vice sindaco e assessore di Vasto dopo che la Cucina Italiana è entrata nella «Lista rappresentativa del patrimonio culturale e immateriale» dell’Unesco

VASTO. La Cucina Italiana è entrata nella «Lista rappresentativa del patrimonio culturale e immateriale» dell’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Cosa e chi troviamo in questa Lista? In essa ci sono «le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale». E allora, ecco spiegato il termine immateriale: l’insieme di azioni, di pratiche, di conoscenze, di interazioni tra culture, sapienza nel proporre, nel ricercare e presentare.

In una parola, la Cucina italiana è la qualificazione della cultura del cibo che da territoriale diventa Universale. Non sono i prodotti del mare, della terra a dare forma al nostro sapere in ambito culinario, ma è esattamente il contrario: sono il nostro estro, la nostra capacità di assorbire e modellare nei secoli culture diverse, trasformando prodotti in pietanze identificabili solo ed esclusivamente con la somma dei territori italiani a renderci unici e creano il cosiddetto “prodotto”. Dalla condivisione delle diversità è nata quella che oggi chiamiamo la Cucina italiana nel mondo, che non è rappresentata dalla pizza o dagli spaghetti, come maldestramente amano indicare coloro che vorrebbero limitarci, bensì dalla capacità di pensare e realizzare prodotti e piatti che hanno un’anima, odori e sapori unici, frutto di decisioni, di manipolazioni artigiane, di accostamenti irriproducibili in altre parti.

Per rendere meglio l’idea di questi concetti non intendo scomodare Maestro Martino de Rossi, forse il primo in Italia a dare una sostanza di interregionalità ai nostri piatti (parliamo della seconda metà del ‘400); o, piuttosto, Teofilo Folengo che nel ‘500 ci raccontava che la terra d’Abruzzo inviava prosciutti alla mensa del Re di Francia per i più sontuosi banchetti; né voglio chiamare in causa giganti come Vittorio Agnetti, autore de La nuova cucina delle specialità regionali (1909): il primo a dare un senso di regionalità alla cucina italiana; o Pellegrino Artusi , autore de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, pubblicato nel 1891: uno dei più celebri libri delle ricette italiane (anche se manca l’Abruzzo). Mi voglio limitare a prendere spunto da Guido Piovene, giornalista illustre, autore del libro Viaggio in Italia (1957), dove viene citato il famoso Brodetto di pesce alla Vastese.

È la prima volta che una ricetta, tipica di un territorio, anzi di una cittadina di mare come Vasto, in una regione che stentava a tenere il passo della ripresa dopo la guerra, viene portata agli onori delle cronache nazionali, perché Piovene, nel suo viaggio, conosce Vasto e si imbatte nel suo piatto tipico a base di pesci catturati da piccole paranze. Di brodetti, di zuppe, di caciucchi, di broetto, broet, bourdeto, ecc... Scrivono già dal XIII secolo, ma per scoprire che Vasto ha un suo piatto tipico, con caratteristiche diverse rispetto agli altri, bisogna attendere il XX secolo. Ed è un piatto che nasce da una tradizione comune alle marinerie dell’Adriatico fin dai tempi in cui prima i greci poi i veneziani imperversavano nel nostro mare stretto tra le coste italiane e dalmate, e preparavano a bordo delle paranze il rancio, che consisteva nel cucinare pesci di scarto, compromessi dalle reti ed inutilizzabili per la vendita.

Di questa tradizione ci racconta tutto lo scrittore Giulio Grimaldi in un reportage dell’Almanacco italiano in cui emerge che sostanzialmente il brodetto di pesce era simile su tutta la riviera adriatica, almeno inizialmente. Il dettaglio di come si accendeva “lu fucon” a bordo di questi battelli ce lo descrive Feola nel suo volume Le Paranze: «Il fuoco si accendeva in un piccolo boccaporto a proravia. Era fabbricato con quattro tavole inchiodate e rivestite di mattoni, a formare uno scatolone quadrato che venina riempito di sabbia, nella parte superiore, sull’apertura del boccaporto, veniva messo di traverso una tavola dove si accendeva il caldaio (lu lapì n.d.a.) di rame stagnato. Il fuoco era di legna e la cenere, mischiandosi con la sabbia, teneva a lungo il calore. Quando l’acqua di mare, olio, cipolla e peperoni piccanti, bollivano, si aggiungeva il pesce: la rana pescatrice, la razza stellata, la tracina, il capone coccio e il pesce San Pietro.

Si otteneva un sugo saporito che veniva versato su larghe fette (lésche) di pane, sulle quali veniva posto il pesce». Questa tradizione, a seconda dei luoghi, viene manipolata, trasformata. A Vasto sarà determinante l’incontro tra pescatori e ortolani che occupavano le terre (orti) tra la Marina e la parte alta della città, lungo la “Costa Contina”, la cosiddetta strada del Brodetto, perché era proprio lì che nella seconda metà dell’800 avveniva il baratto. Durante la risalita con i cesti di pesce per la vendita al mercato nell’attuale Piazza del Popolo, lu màrinare si fermava a barattare i prodotti della terra con l’ortolana. Così’, «lu vréute di lu pàsce» realizzato sulle paranze diventa, nelle case dei pescatori e degli ortolani come ci insegna il prof. Luigi Murolo, «lu vrudatte», Brodetto di pesce alla vastese, un prodotto frutto del connubio con il pomodoro “Mezzotempo” nostrano, coltivato negli orti sotto Palazzo d’Avalos e il peperone verde.

Il procedimento si arricchisce del tegame di terracotta «la tijella», elemento imprescindibile per gustare il Brodetto di pesce alla vastese. Durante la cottura, 20 minuiti circa a coperchio immobile, il pesce non va toccato, per evitare che non si attacchi al tegame, di tanto in tanto la tijella si prende per i manici e, come raccomanda il mai dimenticato storico della tradizioni vastesi Pino Jubatti sul rigoroso disciplinare del Brodetto di pesce alla vastese realizzato quando il sottoscritto era vice sindaco ed assessore al Turismo, va sollevato dal fuoco e mosso «solo attraverso un’abile manovra di leggera oscillazione in senso rotatorio».

Con il passare degli anni la varietà di pesce aumenta: triglie, seppie piccole, gallinelle, panocchie, scorfani e piccole sogliole arricchiscono il piatto. L’importante è la taglia, deve essere piccola e nessun pesce può essere tagliato. In conclusione, l’evoluzione territoriale di un piatto, l’uso di prodotti autoctoni, la sapienza e la conoscenza di gesti, il rispetto di procedimenti che diventano cultura alimentare, la passione di chi cucina quel prodotto identitario di una comunità, sono elementi “immateriali”, irriproducibili da altre parti. Ed è ciò che rende unica la nostra Cucina, quella italiana, quella delle tradizioni vastesi.

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