E’ l’uomo che ha indicato i killer di Fortugno

Le ultime frasi su due bigliettini: «Sono buono, mi piace stare con gli amici»
Il carcere duro a Sulmona prima del “pentimento”

PESCARA. Non era un boss Bruno Piccolo e non lo sarebbe diventato mai, con quella personalità fragile, «inaffidabile» per una organizzazione chiusa come la ’ndrangheta dove il silenzio è Vangelo. Confusa la sua vita, confusi anche gli ultimi istanti di una esistenza senza luce e senza riferimenti. Lo si capisce anche dalle poche parole scritte dal ragazzo su un paio di bigliettini prima di andarsene.

Il primo scritto è una sorta di epitaffio: «Avevo anni...». Poi le altre frasi: «Sono un giovane di 29 anni..., un ragazzo spensierato...». In un altro bigliettino trovato in un cassetto della sua abitazione di Francavilla al mare il pensiero va ai genitori. Ma anche qui i toni sono da necrologio: «Che partecipano...». «Mio padre è morto un anno fa, mia madre sta a casa...». Un’altra frase è rivolta ancora a lui: «Mi piace stare con gli amici... Io sono di carattere buono». Parole che dicono ma non spiegano.

E poi quali amici? Quelli che Bruno Piccolo aveva incontrato nella sua Calabria non erano certo i ragazzi di Locri, quelli di «ammazzateci tutti». Erano gli uomini della potente cosca dei Cordì, quelli che semmai erano loro ad «ammazzare» quando gli veniva a tiro. In qualche caso, come è accaduto al povero Fortugno, senza minacce preventive, senza farsi annunciare con striscioni nei cortei.

«Una persona fragile», lo descrivono gli inquirenti calabresi che avevano in gestione Piccolo nel ruolo di collaboratore di giustizia. Dicono anche che Bruno fosse entrato in contatto con la criminalità organizzata in modo occasionale, per via del suo lavoro di barista che lo portava a conoscere tanta gente dall’altra parte del bancone. Così, alla fine, il bar «Arcobaleno» di Locri diventa per lui il trampolino per una nuova vita. Le famiglie della ’ndrangheta iniziano ad affidargli i primi lavoretti. Quando viene arrestato, assieme ad altri personaggi locali, è accusato di un reato pesante: traffico di armi. Lui non c’entra con l’omicidio Fortugno, ma è legato a filo doppio con i Cordì. Dal carcere di Reggio Calabria viene trasferito a Sulmona dove assaggia subito il regime duro del “41 bis”. I nervi cedono, il ragazzo si sente perduto.

Ma a Locri non si sono dimenticati di lui. Le pressioni della ’ndrangheta per evitare che Bruno Piccolo possa vuotare il sacco si fanno sempre più forti, sempre più dirette, nonostante il ragazzo viva in stato di totale isolamento. Nel dicembre del 2005 la scelta di collaborare con la giustizia, che dev’essere costata chissà quanti tormenti a questo ragazzo di Calabria figlio di onesti lavoratori. Il papà operaio, un uomo tutto d’un pezzo fin quando la fortuna non gira le spalle anche a lui: è morto in un incidente di lavoro. Bruno Piccolo inizia a collaborare, racconta quello che sa. Poi viene trasferito in una località protetta, a Francavilla al mare, dove fa l’unica cosa che ha imparato a fare nella sua Locri, il barista. La cella fredda di Sulmona, il carcere dei «suicidi», resta un ricordo. I giovane torna a vivere.

Si innamora di una ragazza romena che abita a due passi dal locale in cui lavora. Poi, nel giorno dell’anniversario dell’uccisione di Fortugno, mentre nella sua Locri si susseguono i cortei contro la ’ndrangheta, sceglie di farla finita impiccandosi con una corda nel salone di casa. Così dicono gli inquirenti. Questo raccontano le cronache della giornata. Se è un’altra storia Bruno se l’è portata con sè.