«Farai la fine di Giulia Cecchettin», 53enne condannato a due anni: terrorizzava la compagna

Nella sua denuncia del 16 dicembre 2023, la donna ha descritto un rapporto che, fin dai suoi inizi, non è mai stato sereno, minato costantemente dall’atteggiamento «irascibile e violento» dell’uomo
CHIETI . È una sera come tante, in una casa come tante. In televisione scorrono le immagini di un’Italia intera che cerca una ragazza, che spera, che alla fine si ferma a piangere davanti a un lago. Il nome di quella ragazza, Giulia Cecchettin, entra in tutte le case. Ma in una, in provincia di Chieti, quel nome non porta solo dolore. Diventa un’arma. Un uomo guarda la sua compagna e il telegiornale gli offre la sceneggiatura perfetta per il terrore. La voce è dura, la promessa è chiara: «Ti faccio fare la stessa fine di Giulia, ti ammazzo e ti butto per strada».
Quella minaccia, che si appropria di un lutto nazionale, non è un atto isolato, ma il culmine di una guerra di logoramento domestico. Una storia di violenza che le carte processuali descrivono con la freddezza di un referto medico. Nella sua denuncia del 16 dicembre 2023, la donna ha descritto un rapporto che, fin dai suoi inizi, non è mai stato sereno, minato costantemente dall’atteggiamento «irascibile e violento» di lui, al punto da affermare: «Non posso certamente dire che il nostro è stato un matrimonio esemplare». Il verdetto del tribunale di Chieti, in primo grado, ha scritto la parola fine a questo capitolo, con una condanna a due anni per il reato di maltrattamenti a carico di un uomo di 53 anni. È nel racconto della vittima, però, che si delinea l’anatomia di un potere tossico, un sistema di controllo dove la violenza fisica era solo la manifestazione più evidente di un abuso profondo. Un sistema che si reggeva sulla paura.
La stessa paura che, come ha dichiarato la donna, per anni le ha impedito di ricorrere alle cure dei medici dopo le percosse, costretta da lui a non denunciare per timore e perché, a suo dire, veniva costretta a non spiegare le cause reali delle ferite, negandosi così la possibilità di avere referti che potessero sostenere una denuncia. Il silenzio era una strategia di sopravvivenza, ma anche il sintomo di un controllo manipolatorio. Ai carabinieri dela stazione di Chieti Scalo, la donna ha raccontato di quelle rare occasioni in cui è finita al pronto soccorso, ma senza denunciare ciò che le era davvero accaduto, per evitare scandali. Un meccanismo perverso che la isolava due volte: prima con la violenza, poi obbligandola a mentire per proteggere il suo stesso aguzzino.
La violenza, secondo la ricostruzione, era un rituale. L'alcol era spesso il detonatore di «accessi d’ira immotivati o dovuti a futili motivi», come il sospetto che la moglie, tentando di uscire di casa, andasse a incontrare altri uomini. Un paradosso, stando alla testimonianza della donna, dato che era lui stesso ad avere un atteggiamento definito «libertino», assentandosi da casa «due o tre volte a settimana» per poi ripresentarsi giorni dopo, un comportamento che le aveva fatto sospettare la presenza di altre donne. Eppure, era lui ad accusare, a trasformare la propria gelosia in un pretesto per la violenza. Le parole erano il primo strumento di aggressione: un profluvio di insulti a sfondo sessista e razzista, usati per demolire, per umiliare, per isolare la donna.
Era un’erosione metodica, che preparava il terreno alla violenza fisica, iniziata, secondo le parole della vittima, da circa trent’anni. Ha dichiarato di aver subito, per anni, ripetute percosse (pugni, schiaffi e calci) ed episodi in cui lui le stringeva le mani attorno al collo. Il suo corpo portava i segni di una violenza – secondo quanto ha riferito – che la comunità vedeva, ma non denunciava. «Ci sono persone che mi hanno vista con ematomi piuttosto che con lividi sul corpo», ha spiegato, aggiungendo però con rassegnazione la sua percezione che la paura avrebbe prevalso: «Nessuno testimonierebbe in mio favore». Un isolamento che la rendeva ancora più vulnerabile.
L’arsenale del terrore non si limitava alle mani. Nella denuncia si parla di «coltelli di ogni genere, da cucina, a scatto o da cacciatore», usati non per colpire ma per minacciare, puntati spesso alla gola, per mantenere uno stato di soggezione costante. Anche un’arma da fuoco è diventata protagonista di uno degli episodi più drammatici. Una mattina, dopo l’ennesima conferma della volontà della donna di andarsene, lui ha aperto l’armadio; la donna si è alzata di scatto ed è fuggita via, ancora in pigiama. Fuggiva «in preda al panico». Mentre scappava, ha sentito tre colpi. Si è voltata e lo ha visto sul balcone impugnare ciò che riteneva essere una pistola. «Dopo un paio d’ore ho ripreso coraggio e sono rientrata a casa», ha raccontato la donna. «Lui era sul divano e quando mi ha vista ha continuato a minacciarmi e offendermi con frasi del tipo “ehi p... sei tornata..., ora vai in cucina e vai a cucinare qualcosa”». Un episodio significativo nel percorso che l’ha portata alla denuncia del 16 dicembre 2023. Era la fine di un’omertà imposta con la forza, la fine di ordini perentori come quello, agghiacciante nella sua normalità.
La minaccia più spaventosa, però, è arrivata nelle settimane che hanno preceduto la denuncia di metà dicembre, quando l’uomo ha evocato la fine di Giulia Cecchettin. La vicenda della studentessa di 22 anni, uccisa dall’ex fidanzato a Fossò (Venezia) e il cui corpo fu ritrovato il 18 novembre, aveva generato un’ondata di commozione e rabbia in tutta Italia, riaccendendo con forza il dibattito sul femminicidio. In quei giorni, il nome di Giulia era diventato il simbolo di tutte le donne vittime di violenza. Per il 53enne, invece, quella storia è diventata un modello da evocare, uno strumento per terrorizzare. La scelta di usare proprio quel nome, in quel preciso momento, rivela una lucida volontà di sfruttare l’impatto emotivo di una tragedia collettiva per amplificare la portata della sua minaccia privata. Non era più solo un avvertimento, ma il tentativo di collocare la sua violenza domestica nella scia di un evento che aveva sconvolto il Paese.
In aula, il pubblico ministero Giuseppe Falasca aveva chiesto una pena di 3 anni e 8 mesi, sottolineando non solo la gravità dei fatti, ma anche la recidiva reiterata dell'imputato, a indicare una persistenza nel commettere reati della stessa indole. Il collegio presieduto da Guido Campli (giudici a latere Luca De Ninis Morena Susi) ha infine inflitto una condanna a due anni nei confronti del 53enne, difeso dagli avvocati Roberto Di Loreto e Franca Zuccarini. La donna, assistita dall’avvocato Manuela D’Arcangelo, dovrà essere risarcita con 10.000 euro.
Si sentiva il padrone di una storia, convinto di poterne scrivere il finale prendendo in prestito un'altra tragedia. La sua pretesa di potere si è spenta in un’aula di tribunale. Due anni. Fine della corsa.