Gissi, le operaie della Golden Lady"Ci hanno tolto speranza e dignità"

Calzificio chiuso da fine novembre: "Lavoro in giro non c’è e abbiamo tutte più di 40 anni"

GISSI. Antonella, Tiziana, Giovanna. Il simbolo dell'8 marzo, in questa parte d'Abruzzo, sono loro, le operaie della Golden Lady. Nella giornata simbolo delle donne si ritrovano davanti allo stabilimento dove hanno lavorato per tutta una vita. Non ci si scambia auguri né mimose. Di colore giallo ci sono solo i cancelli automatici della fabbrica, che tre mesi fa si sono chiusi alle loro spalle. Ma loro sono ancora lì, dritte come querce, a non farsi piegare da logiche di mercato che spostano la produzione altrove e a reclamare quello che sono: non solo donne, ma anche lavoratrici.

C'è chi è andata a riprendere i figli a scuola, chi ha sistemato il pranzo per la famiglia e rassettato la casa. Tutto di corsa perché alle 15 l'appuntamento è davanti alla fabbrica di calze. Si rivedono, si salutano, si scambiano convenevoli. Sembra l'inizio di un turno di lavoro, ma non lo è. Sono qui proprio perché il lavoro, quello di una vita, sicuro fino a un anno e mezzo fa, non ce l'hanno più.

«Questa fabbrica era il fiore all'occhiello della Val Sinello, nessuno si aspettava che chiudesse per prima», riflette Antonella Ottaviani, ex operaia. Sono circa 250 le ex lavoratrici dello stabilimento, ma molte mancano all'appello. «C'è chi ha ancora paura ad esporsi», spiega una ex dipendente. Quelle presenti non hanno voglia di arrendersi e hanno scelto il giorno simbolo delle donne per ribadirlo. «Quest'anno viviamo la ricorrenza con tristezza e con l'amaro in bocca», dice Fauzia Di Nella, per 23 anni dipendente Golden Lady, prima al reparto confezioni e poi responsabile del controllo misure, «ci hanno tolto la speranza, la dignità. Lavoro in giro non ce n'è e siamo penalizzate dall'età: abbiamo tutte da 40 anni in su. Gli imprenditori sono incentivati ad assumere giovani, noi che fine faremo? Penso al futuro dei miei figli: due stipendi in famiglia servivano non per avere di più, ma per sopravvivere».

«Invece di festeggiare siamo qui per protestare il posto di lavoro», dice Iolanda Di Tullio, «viviamo un disagio fortissimo, la preoccupazione cresce e si trasforma in esasperazione. Le istituzioni non ci possono abbandonare. Le donne della Golden Lady pretendono attenzione dalla Regione, che si faccia carico del dramma sociale che le operaie stanno vivendo».

Qui il presidente Gianni Chiodi non l'hanno mai visto. «Ringraziamo solo il presidente della commissione regionale industria e commercio, Nicola Argirò, e il presidente della Provincia, Enrico Di Giuseppantonio», ci tengono a puntualizzare.

In questi mesi le operaie Golden Lady hanno portato la loro lotta a Pescara e poi a Roma, fino al ministero, e si sono abituate a stare sotto i riflettori. «Ormai stiamo spesso sui quotidiani e nei telegiornali», sospirano.

Un concentrato di rosetto, mascara e grinta; femminilità e lotta per i diritti. «Abbiamo dato tanto per questa fabbrica: mai presi giorni di malattia e per avere un permesso facevi turni in più», sottolinea Carmela, «per che cosa poi?».

Nel magazzino sta per iniziare un'assemblea sindacale per fare il punto della situazione sulla vertenza e le ipotesi di riconversione dello stabilimento. «Non abbiamo le idee chiare», spiega Tiziana, «ci dicono che riconvertire la fabbrica in un'altra attività è una cosa difficile, dovrebbero assorbire più unità operative per volta».

«Ero qui quando proprietaria era la Sebino», racconta Loredana che ha lavorato a Gissi per 35 anni, «poi 23 anni fa la Golden Lady la rilevò. Ma erano altri tempi, non ricordo tutte le preoccupazioni di adesso, forse perché ero giovane».

Nel 2012, invece, il domani è nero: la fabbrica delle calze ha chiuso, ha trovato una nuova casa in Serbia e non si sa chi prenderà il suo posto. «Ho 60 anni ormai, potrei starmene a casa», parla ancora Giovanna, «invece sono qui, l'8 marzo, a lottare per lavoro e diritti. Questa fabbrica ce l'ho nel cuore e mi dispiace per le mie colleghe: temo per il loro futuro come fossero mie figlie».

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