I tre bimbi strappati dal bosco: «Papà, quando torniamo a casa?»

La madre li vede solo durante i pasti, il padre per 10 minuti al giorno: «Ci chiedono degli animali». Intanto la petizione online ha superato le centomila firme
PALMOLI. Un’altalena, una macchinina con cui immaginare di correre in pista. Giochi che regalano attimi di svago a tre bambini, ma comunque non abbastanza da impedire loro di fare quella che, in questo momento, è la domanda delle domande: «Papà, quando torniamo a casa?». E lo sgomento di un genitore senza certezze che non può che provare a rassicurare i suoi figli. «Presto, ragazzi, presto». Nathan Trevallion, il papà della famiglia che viveva nel bosco di Palmoli, è costretto a rispondere così in quei pochi minuti che ha a disposizione per parlare con i suoi bimbi, dopo che il tribunale per i minorenni dell’Aquila ha deciso di allontanarli dal casolare di pietra e collocarli in una struttura protetta a Vasto. Come se la legge della natura avesse dovuto soccombere di fronte a quella dello Stato. Nathan può incontrare la bimba di 8 anni e i gemellini di 6 – un maschio e una femmina – per una decina di minuti al giorno, non di più. «Non me lo permettono», dice. Loro lo abbracciano, lo baciano, gli domandano della casa e degli animali. La figlia piccola chiede incessantemente del gatto. Le manca, vuole accarezzarlo e dargli da mangiare come faceva sempre.
Due giorni hanno cancellato il loro mondo di prima – fatto di fuochi accesi tra le pietre e silenzi assoluti – per sostituirlo con una realtà di regole, orari e muri di cemento. La loro nuova vita è fatta di piccoli gesti e grandi assenze. Non c’è più l’asino da accudire, non ci sono le galline che razzolano intorno al rudere che per i giudici era un pericolo e per loro era il regno dell’avventura. Ora c’è un cortile chiuso e c’è solo quell’altalena a offrire uno spiraglio di aria fresca.
Però i bimbi sono sereni, dice Nathan, si divertono con i loro nuovi giochi e qui hanno anche fatto amicizia con un’altra bimba. Sono consapevoli di ciò che sta succedendo, ma sono felici. Si fidano del calore di quel rassicurante «presto torneremo a casa», quella promessa fatta dal padre a cui ha deciso di credere lui stesso: «Spero davvero che la prossima settimana potremo riunirci e tornare tutti a casa, di nuovo uniti».
Ma, dietro quella serenità apparente, c’è la nostalgia che morde. Non chiedono giocattoli, non chiedono tv o videogiochi – che Nathan non sa nemmeno se ci siano nella struttura, e che comunque non amerebbe: «Non mi piace che si siedano davanti al televisore, ma non ho avuto il tempo per fargli domande su questo. In ogni caso, non sono io a decidere».
E mamma Catherine? Lei è stata l’unica autorizzata a seguire i figli nella struttura, dorme nello stesso edificio, ma non con loro. I bimbi al piano di sotto, lei in quello di sopra. Li sente parlare, ridere e scherzare, ma non può vederli. Soffre moltissimo. Fino a qualche giorno fa mangiavano insieme, dormivano insieme, facevano tutto insieme. Adesso Catherine può vederli soltanto durante i pasti. Due sere fa è riuscita a leggergli una favola prima di andare a dormire. O meglio, prima che ci andassero i bimbi. Perché lei, da quando è scattata la decisione del giudice, non chiude più occhio. La notte è solo una dolorosa attesa, ciò che la separa dallo stare insieme. Di nuovo. È durissima, dice, ma cerca di farsi forza e tenere duro per i ragazzi. Ed è anche per questo che i piccoli sorridono, giocano e fanno domande sulla loro casa. Come se stessero vivendo una vacanza, consapevoli che presto finirà.
La bambina più grande, quella di 8 anni, ha un’insegnante che la affianca. I gemellini invece si sono fatti una nuova, piccola amica, anche lei ospite dalla struttura. Il gruppetto gioca nel giardino della casa famiglia con l’altalena tradizionale e quella “sali e scendi”, e hanno con loro anche i peluche che Nathan ha portato da casa con i vestiti, le scarpe e quant’altro potesse essere utile, compresa una cassa di frutta fresca. Un altro modo per ricordare ai suoi ragazzi chi e che cosa rappresenta, per loro, la parola casa, dove fino a due giorni prima dell’allontanamento giocavano a fare i giardinieri tutti insieme. Avevano appena piantato le fave, dice Nathan, e ora gli chiedono anche di quello. «Hanno cominciato a crescere?».
Questo padre dagli occhi scavati dalla stanchezza non smette di ripeterlo ai giornalisti che da giorni circondano la casa nel bosco dove, ormai, abita solo lui: «Con noi stanno bene, sono bambini sani e felici, educati e pieni d’amore, non malnutriti o maltrattati. Non capisco perché ce li hanno portati via».
Ma questo è lo stato delle cose. E così tutto quell’amore, che in casa ha lasciato spazio a un assordante silenzio, si riversa nei pochi attimi che possono passare insieme. Nathan si ripete che la fortuna è che questi bambini sono forti, che continuano a sorridere. Ieri, prima che andasse via, la gemellina gli ha chiesto se quella “trappola” per cinghiali che aveva realizzato con i suoi fratelli avesse funzionato. Non è una trappola vera, è costruita con bancali e pezzi di metallo. Una finzione, insomma, ma i piccoli credono davvero che una di queste notti un cinghiale possa finirci dentro, spiega il papà, accennando un sorriso.
La “trappola” è il segno tangibile dell’immaginazione di questi bambini, il filo rosso che tiene insieme la realtà a cui sono abituati con quella che vivono oggi, fatta di palazzi in cemento e strade asfaltate, luci dei lampioni e non delle stelle. E quando quell’oasi di pace e di silenzio manca più del solito, riescono ad andare avanti grazie alle fantasie di una macchinina rossa che sfreccia nel cortile della casa famiglia come una Ferrari in pista.
Tra le cause indicate dai giudici nelle motivazioni del provvedimento che ha stabilito l’allontanamento dei figli dalla casa nel bosco, c’è l’esposizione mediatica. I genitori vengono sostanzialmente accusati di aver strumentalizzato la figura dei figli per influenzare l’opinione pubblica e, quindi, la libera decisione dei magistrati. Indubbiamente il caso ha attirato l’attenzione di tutta Italia e oltre (il Daily Telegraph, un importante quotidiano inglese, negli scorsi giorni gli ha dedicato un lungo articolo), facendo breccia anche nel mondo della politica.
Il governo Meloni, a partire dal vicepremier Matteo Salvini, poi seguito a ruota dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha commentato duramente la decisione presa dal tribunale per i minorenni e si è schierato dalla parte di questa famiglia. Salvini ha addirittura parlato di un «sequestro in atto» e ha promesso che la prossima settimana sarà in Abruzzo per dimostrare tutta la sua vicinanza. La politica gioca la sua partita. Però c’è anche la società civile, i cittadini qualunque che esprimono il loro sostegno, senza avere alcun tornaconto.
I social sono stati inondati da post per celebrarli, la petizione online in loro difesa ha superato le centomila firme. Tutto ciò ha un riscontro anche nella vita reale, racconta Nathan. «Ormai per fare la spesa ci metto due ore. Mi riconoscono, mi stringono la mano. Mi dicono “forza, sei un bravo padre. Siamo con te e la tua famiglia. Siete bellissimi”. Ho capito come si sentono le star di Hollywood». Ogni tanto riesce anche a concedersi una battuta, Nathan, a tirare il fiato nella pesantezza di questa distanza dalle «persone che amo più di ogni cosa al mondo» e che, ora, gli mancano «così tanto che oggi mi sento triste, vuoto».
Nei momenti peggiori si aggrappa alla speranza di poter riunire la sua famiglia la prossima settimana. E spiega che così riesce a mantenere la calma. Forse penserà anche ai suoi bambini che, sognando di toccare il cielo su un’altalena o di correre a bordo di una sfavillante macchinina rossa, continuano a sorridere. La loro forza è anche la sua.
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