Il tifoso investito è indagato per l’agguato al bus del Chieti

Accertamenti per definire il suo ruolo. La verità dalle chat e dai dati dello smartphone
CHIETI. Per due giorni è stato il volto sfortunato di una trasferta maledetta, il tifoso travolto da un’auto nel buio mentre la sua squadra rientrava da Recanati sconfitta. Ora quel volto ha cambiato etichetta. Le indagini della polizia rischiano di ribaltare la prospettiva: il 37enne teatino ricoverato all’ospedale di Torrette non è più soltanto la parte lesa di un incidente stradale, ma è ufficialmente indagato per l’agguato al pullman del Chieti calcio.
La metamorfosi da vittima a sospettato si è compiuta con un atto formale notificato direttamente in corsia. Le accuse sono pesanti: concorso nei reati di violenza privata, danneggiamento aggravato e lancio di materiale pericoloso in occasione di manifestazioni sportive. La premessa obbligata è che si tratta di un atto dovuto, un passaggio tecnico indispensabile per poter sequestrare lo smartphone dell’uomo e analizzarne il contenuto con tutte le garanzie difensive. Ma la mossa investigativa toglie ogni velo di ipocrisia: gli inquirenti sospettano che la presenza di quell’uomo sulla provinciale di Loreto, esattamente dove il bus neroverde è stato assaltato, non fosse una coincidenza, ma l’ingranaggio inceppato di una trappola quasi perfetta.
La versione difensiva, affidata ai familiari, racconta una storia di ordinaria sfortuna: l’uomo sarebbe sceso dalla propria vettura per aiutare un amico in una manovra, finendo poi investito da un’auto di passaggio guidata da un’anziana. Una fatalità, slegata dal contesto di violenza. La polizia di Stato, però, lavora anche su un altro scenario: tra le ipotesi c’è che il tifoso, prima di essere travolto dall’utilitaria della pensionata, abbia avuto un ruolo nell’assalto.
È proprio l’incrocio tra la geografia e i tempi a spingere la Digos di Chieti, coordinata dalla procura di Ancona, a guardare da vicino la posizione del 37enne: l’imboscata è avvenuta nelle vicinanze del punto dell’investimento e in un orario compatibile con quello dell’incidente. Le indagini vanno avanti: ieri sono state ascoltate altre persone in questura, tra cui alcuni dirigenti neroverdi. Una quindicina di ultrà teatini, identificati al momento del rientro in città dopo la trasferta di Recanati, è sospettata di aver partecipato al raid. Anche per loro, però, non ci sono ancora punti fermi né responsabilità accertate.
L’agguato di Loreto non è un fulmine a ciel sereno, ma l’esito tossico di giorni di altissima tensione. La tifoseria organizzata aveva già alzato il livello dello scontro, attaccando la società per le promesse non mantenute e accusando i giocatori di essere dei «mercenari». La sconfitta di Recanati, che ha fatto sprofondare la squadra in zona play-out nel girone F di serie D, è stata solo la scintilla che ha fatto esplodere una polveriera già satura.
La gravità di quanto accaduto, però, supera la normale dialettica, pur aspra, del calcio. Per comprenderne la ferocia, bisogna affidarsi alla memoria di Marcello Frattone. L’autista del Chieti, 46 anni, ha vissuto l’attacco dal posto di guida e il suo racconto spazza via l’idea di una semplice contestazione sfuggita di mano. «Si è sfiorata la tragedia. Per fortuna il vetro interno del pullman non si è sfondato, altrimenti parleremmo di una strage», ha raccontato Frattone. «Il sasso ha sfiorato un ragazzo di 18 anni che era seduto vicino al finestrino. Siamo stati graziati dalla Madonna».
Secondo la ricostruzione dell’autista, l’azione era pianificata con cura militare. Lungo quella strada secondaria che porta al casello, Frattone ha notato veicoli parcheggiati ai lati della carreggiata, pulmini da nove posti messi lì come barriere visive, e persone appostate nel buio, pronte a scattare. «Quando mi sono avvicinato, li ho visti sbucare tutti insieme. Ne erano tantissimi, penso una trentina. Me li sono ritrovati davanti al pullman».
In quella frazione di secondo in cui si decide tutto, l’autista ha avuto la lucidità di non frenare. Procedeva a circa 50 chilometri orari e ha capito che fermarsi avrebbe significato la fine. «Ho fatto una manovra e mi sono allargato sull’altra corsia, riuscendo a evitarli», ha spiegato. Mentre il pullman forzava il blocco, è iniziata la pioggia di pietre. «Ho sentito i rumori della sassaiola. Almeno quattro massi, forse anche di più, sono stati scagliati contro il pullman». Nel caos dei vetri infranti, mentre a bordo le urla coprivano il motore, la mente di Frattone è andata subito a un precedente che gela il sangue a chiunque lavori nel mondo dello sport. «Ho pensato all’autista del Pistoia basket che ha perso la vita colpito da un mattone lanciato dai tifosi del Rieti in un agguato simile al nostro», ha raccontato. «Se mi fossi fermato, sarebbero saliti sul pullman e sarebbe stato peggio».
Ora spetta agli investigatori mettere in fila fatti, prove e indizi. Ma, al di là delle sentenze future, resta la domanda inquietante, quasi disperata, posta dall’autista Frattone: come è possibile che, a un solo mese dalla tragedia di Rieti, qualcuno abbia anche solo pensato di replicare quella dinamica?
©RIPRODUZIONE RISERVATA

