«Il Turchino? Ecco perché si chiama così»

San Vito, Maria Luisa Di Cintio è una delle discendenti della famiglia che curò il trabocco crollato

SAN VITO. «E’ stato un dolore grande e profondo quello provato quando mi sono affacciata e ho visto il trabocco accasciato su se stesso, con i pali in mare. Ho ripensato ai miei antenati, ai miei giochi di bambina su quella macchina tanto delicata e ho provato una tristezza profonda». A parlare è Maria Luisa Di Cintio, figlia di “Luigge (Luigi) di Turchinije" come si dice a San Vito. Ossia una delle ultime discendenti della famiglia che per quasi un secolo ha custodito e curato, cambiando ogni palo, rete, antenna e fune che dava segni di cedimento, il trabocco del Turchino. Che ha costruito la straordinaria macchina da pesca descritta anche da D’Annunzio nel Trionfo della Morte.

«Da piccola ci salivo sempre su», racconta la signora che ora vive a Pescara ma torna spesso nella casa sul promontorio dannunziano, «ed ero affascinata dalle tante storie che si raccontavano su di esso. Una di queste era proprio sul nome. Credevo, come molte altri sanvitesi, che si chiamasse trabocco del Turchino per il blu, il colore turchino del mare. Invece non è così. E fu mio padre Luigi a raccontarmi l’origine del nome. Il nonno di mio nonno Florindo, fu rapito dai Turchi, ma riuscì a tornare poi a San Vito, sul suo promontorio. Così lo cominciarono a chiamare Turchino, dei turchi. E da allora è rimasto il nome. Che poi è finito anche al trabocco perché era di sua proprietà: era il trabocco di Turchino».

Un trabocco che la signora racconta essere stato costruito per necessità, perché la terra non poteva essere tutta coltivata e il pesce contribuiva a soddisfare le esigenze familiari. Una gestione, quella dei Di Cinto, che è proseguita negli anni. «Uno degli ultimi proprietari del Turchino è stato mio padre Luigi», riprende Maria Luisa, «che ricevette il trabocco, assieme al cugino, da mio nonno Florindo che è il figlio del ragazzo del trabocco descritto da D’Annunzio». Il Vate parla di Turchino, il celebre padrone del trabocco, ossia Luigi Di Cintio nel “Trionfo della Morte”e lo descrive così: “Si ricordò di quel viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti”. «Mio nonno Florindo aveva 8-9 anni quando D’Annunzio soggiornò all’Eremo e mio padre raccontava che spesso lo accompagnava al trabocco e gli andava a comprare i sigari alla marina». La “strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simili ad un ragno colossale” passò al figlio di Florindo, Luigi e al nipote Paolo. Luigi poi lasciò il trabocco a Paolo che lo vendette, visto che faceva fatica a curarlo, «all’inizio degli anni ’80 al Comune, per un milione di lire». Così il Turchino divenne il primo trabocco di proprietà di un Comune.

Ma, una macchina da pesca tanto delicata aveva bisogno di manutenzione continua e il Comune la affidò a Franco Cicchetti che la ricostruì con Antonio Verì nel 1987 e poi ancora partecipò ai lavori del 2004. Ma, dal 2004 la struttura si è deteriorata senza che nessuno più la curasse. A settembre verrà ricostruita, fondi permettendo. Nel frattempo è stata aperta un’inchiesta sul crollo dalla Procura che analizzerà i lavori di ristrutturazione del 2004 e la manutenzione, che doveva essere eseguita negli ultimi 10 anni.

Teresa Di Rocco

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