La barista-schiava: costretta a dormire su un divano in cucina e sorvegliata con una telecamera

Oltre alla palese violazione delle norme su orari e ferie, la vittima non veniva pagata: al lavoro per 18 ore al giorno senza stipendio
CHIETI. C’è un occhio elettronico che la fissa. È una presenza costante, inesorabile. La riprende sempre, anche quando crede di essere sola, nell’unico luogo che dovrebbe essere il suo rifugio, il suo spazio minimo di intimità. La riprende mentre cerca riposo, mentre si cambia, mentre consuma un pasto frugale, mentre combatte la stanchezza di una giornata infinita. La telecamera è installata in un piccolo locale cucina, lo stesso dove, al posto di un letto, c’è il divano su cui è costretta a dormire ogni notte. È una sorveglianza totale, ventiquattro ore su ventiquattro, che non finisce con il turno di lavoro, perché la sua vita, secondo l’accusa, non le appartiene più. Non è la scena di un reality show distopico, né la trama di un romanzo sulla paranoia tecnologica. È il cuore di un’inchiesta della procura distrettuale dell'Aquila che ha portato alla contestazione, per una donna di 43 anni, del reato più infamante e arcaico, un reato che si pensava relegato ai libri di storia: la riduzione e il mantenimento in schiavitù.
ARTICOLO COMPLETO SUL CENTRO IN EDICOLA

