Le intercettazioni sul viaggio del boss in Abruzzo: messaggi alla finta amante per costruirsi un alibi di ferro

Pietro Schilirò con il suo pitbull davanti alla fontana delle 99 cannelle all’Aquila
Dall’arrivo nell’aeroporto di Pescara al tragitto in auto, fino al luogo del summit. Al telefono la strategia per cancellare le prove: «Poi dovremo bruciare tutto»
CHIETI. Un aereo che atterra sulla pista di Pescara, un uomo che scende e si guarda intorno. Non è un viaggio di piacere, né una trasferta di lavoro. È l’inizio di un summit di mafia, la prima tappa di una missione di morte pianificata a centinaia di chilometri di distanza. È il 5 luglio 2025 e il passeggero appena sbarcato in Abruzzo è Pietro Lucifora, reggente del clan Scalisi, venuto da Catania con un unico, spietato obiettivo: organizzare la vendetta per l’omicidio di suo figlio. Ad attenderlo al varco degli arrivi non c’è un commando, ma una famiglia all’apparenza normale: suo zio, Pietro Schilirò, che fa l’autotrasportatore e vive a Chieti, e la giovane figlia della compagna di quest’ultimo. Il viaggio in auto dall’aeroporto alla casa di via dei Sabelli è il breve tragitto che trasforma la città nel quartier generale di un’operazione di sangue.
È qui, tra le mura di un anonimo appartamento, che il piano prende forma in ogni suo agghiacciante dettaglio, come emerge dalle carte dell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catania. Lo scrive a chiare lettere il giudice per le indagini preliminari: «Al fine di realizzare il suo proposito omicidiario, Lucifora si è recato a Chieti presso l’abitazione di Schilirò, coinvolto dall’indagato nella pianificazione dell’omicidio, così come la compagna di quest’ultimo e la figliastra. Un intero nucleo familiare, perfettamente integrato nel tessuto sociale abruzzese, messo a disposizione di un progetto criminale.
L’incontro è un vero e proprio vertice operativo. Si discute di come colpire, ma soprattutto di come garantirsi l’impunità. Il primo punto all’ordine del giorno è il travestimento. Il gruppo di fuoco dovrà agire indossando divise dei carabinieri per avvicinare le vittime senza destare sospetti. L’argomento è talmente concreto che Lucifora, parlando con il boss detenuto Vincenzo Biondi, ne discute con agghiacciante normalità: «Appena io ti faccio vedere... i vestiti che mi sono comprato... e ti metti a ridere (divisa da carabiniere) per una settimana non ti do confidenza», gli dice, rivelando un piano già in stato avanzato. Un piano che prevede anche l’occultamento delle prove, come spiega in un’altra intercettazione: «Ma tanto poi noialtri li dobbiamo bruciare...».
Ma l’aspetto più torbido e complesso del summit teatino riguarda la costruzione dell'alibi. Un castello di menzogne scientificamente architettato, che ruota attorno alla figura di una «finta amante». Un ruolo che, secondo gli inquirenti, è stato ricoperto proprio dalla figliastra di Schilirò, la stessa ragazza che era andata a prenderlo in aeroporto. L’idea è quella di creare le prove di una relazione extraconiugale di Lucifora, una scappatella che lo collocherebbe lontano dalla Sicilia proprio nei giorni dell’eccidio. A tessere questa tela ingannevole, in un paradosso di complicità, è la stessa convivente del boss. È lei che, da Adrano, su dettatura del compagno, invia messaggi al cellulare della ragazza per rendere tutto più credibile.
Le conversazioni registrate dagli inquirenti sono la sceneggiatura di questa farsa macabra. I messaggi non sono romantici, ma studiati per simulare il risentimento di un amante geloso e trascurato. È Lucifora stesso a dettare alla convivente le parole da inviare: «Tieni qua, scrivile due parole... così scritte... le dici “e neanche rispondi... si vede che sei troppo impegnata e ti stai divertendo tanto, comunque va bene così. Ma ho capito che è tutta una finta... tutto questo amore che dici di provare per me...”». Messaggi finti, costruiti a tavolino per lasciare una traccia digitale.
Questa messinscena, però, non è fine a se stessa, ma è concepita per un uso ben preciso: essere utilizzata in un futuro in un eventuale interrogatorio. La determinazione di Lucifora emerge in tutta la sua violenza in una conversazione intercettata con un altro uomo d’onore, in cui, ricordando il giorno dell’omicidio del figlio, confessa il suo più grande rammarico: «Se io quella sera ero là... ma tu pensi che mi avevano ammazzato a mio figlio e lui era là... suo padre... istintivamente non avevo cercato di scannarlo là stesso?». Quel viaggio a Chieti, dunque, non è stato un semplice appoggio logistico. È stato il momento fondativo del piano di morte, il tavolo su cui sono state disposte tutte le carte di una partita che si sarebbe dovuta giocare con il sangue.
Dall’aeroporto di Pescara fino al salotto di una casa di Chieti, la mafia ha importato in Abruzzo i suoi metodi e la sua glaciale determinazione, trasformando per pochi giorni un tranquillo quartiere cittadino in una camera di consiglio per una strage.
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