Foto di gruppo dei lavoratori della Cellulosa d'Italia durante una gita a Roma

CHIETI

«Noi, quelli della cellulosa. Quando c’era la cartiera» 

Il Villaggio Celdit raccontato dall’ex sindacalista Iezzi, dalla nascita alle lotte operaie: «Quanti ricordi nella piazza con la Lupa, ora un museo per un secolo di industria»

CHIETI. «Un museo. Sì, il Celdit Museum, per non dimenticare quasi un secolo di storia industriale e riappropriarci, attraverso uno spazio culturale, di un pezzo importante della nostra identità». C’è orgoglio e determinazione nelle parole di Ugo Iezzi, giornalista ed ex dirigente sindacale che, diversi anni fa, pubblicò un libro, “Il villaggio della fabbrica di papà” nel quale si allunga una coinvolgente storia di vita cittadina, incursione analitica quanto affettuosa su una realtà che oggi, a dieci anni dalla chiusura ed abbattimento della Cartiera Burgo, mantiene in pieno tutta la sua suggestione.

Ugo Iezzi

LA LUPA E IL CINGHIALE. Straripante la voglia di raccontare. Si parte dal 1938 con l’apertura della Celdit, acronimo di Cellulosa d’Italia, da parte della famiglia Pomilio. «Lì lavoravano mio padre Gabriele e mio zio Agostino e, per noi ragazzini nati nell’immediato dopoguerra, una autentica palestra di vita fu rappresentata proprio dalla piazza sulla quale affacciavano le palazzine del villaggio costruito nei pressi della fabbrica. Un’agorà circondata da strutture a tre piani, poi varie case basse con un piccolo giardinetto mentre, tutto intorno, si costruivano altre abitazioni popolari attraverso il progetto Ina Casa. Le statue in marmo della Lupa, simbolo dell’Italia fascista, e del Cinghiale, a rappresentare la provincia di Chieti, troneggiavano nei pressi dei cancelli di quella fabbrica bianca ed imponente che sentivamo tutti come una cosa nostra e finì per richiamare tante persone dai paesi limitrofi». Con il quartiere ad allargarsi attorno alla prospettiva di un lavoro ambito, per un operaio quello che, ai tempi, per un impiegato poteva magari rappresentare un posto in banca.

Quattro bambini sotto la statua della Lupa al Villaggio Celdit

ROSSO POMODORO. Un quartiere “rosso”, come ricordano in parecchi. Ugo sorride e ci scherza sopra. «Sì, c’era il rosso dell’impegno politico e quello delle bottiglie di pomodoro che si preparavano ogni anno nelle famiglie con il coinvolgimento dell’intero villaggio. Si viveva praticamente in una grande comunità. Tra i denominatori comuni, il suono della sirena della fabbrica che scandiva i turni di lavoro». E le immagini scorrono come in un cinegiornale Incom. «L’azienda organizzava diverse gite con una massiccia adesione e ho un nitido ricordo del mio primo viaggio in autobus a Napoli. Poi le colonie estive, al mare o in montagna, per i figli dei dipendenti. Un coro folkloristico, una squadra di calcio e i pacchi dono in occasione delle festività natalizie. Pacchi che mi sembravano enormi, conservo ancora qualche quaderno con la copertina nera che faceva parte della dotazione che veniva distribuita all’inizio dell’anno scolastico». Intanto la parte a valle della città cresceva attorno al “villaggio”. «Arrivavano nuovi nuclei familiari, era arrivata anche la televisione, nei primi tempi ovviamente condivisa con appuntamenti serali nelle varie abitazioni. Ed arrivò da Bussi anche la famiglia di mio suocero, Ermando Scipioni. Sposai Franca, che avevo ovviamente conosciuto in piazzetta, punto di ritrovo di ogni comitiva mentre l’indotto aveva portato in quelle abitazioni famiglie di artigiani, impiegati e agenti di polizia. Un mondo che cresceva, si andava a lavorare in bicicletta mentre gli operai che abitavano sul colle arrivavano in filobus. Tra tanti personaggi, ricordo due sportivi: Nicodemo Di Paolo, buon calciatore nonché valido fisarmonicista, ed il ciclista Walter La Pietra, detto “la frezza”, per un periodo gregario di Vito Taccone, il “camoscio d’Abruzzo”.

Gli uomini del quartiere nato intorno alla fabbrica della carta
QUELLI DELLA CELLULOSA. I rapporti sindacali ? «Abbastanza buoni. Da una sorta di paternalismo aziendale a qualche contrasto con alcuni dirigenti tra un cambio e l’altro di proprietà, rari i momenti di tensione che pure non sono mancati. Spesso si partecipava a manifestazioni in sostegno di altre fabbriche in difficoltà e “quelli della cellulosa” venivano scherzosamente apostrofati come “aristocrazia operaia”. Alla base, un forte legame con l’azienda anche perché chi lasciava il lavoro, in diverse occasioni, vedeva assunto un figlio o un parente prossimo». Tra i tanti, c’è un altro personaggio ad affollare i ricordi di Ugo Iezzi. «Un mito. Ovvero padre Giuseppe, il dinamico parroco di Madonna delle Piane. Organizzava persino riunioni di pugilato e ci conosceva davvero tutti. Conosceva anche parecchi dirigenti della cartiera ed il suo intervento rassicurante ha spesso risolto qualche problema».

I bambini del Villaggio Celdit in posa sulla scalinata della cartiera

TENNIS IN FABBRICA. Il racconto prosegue davanti alla vasta area lasciata dell’ex cartiera. «Ci sarebbe tanto da dire ma sarebbe inutile. È un’altra storia. Quella della quale invece, assieme a un gruppo di amici, desidero sia assolutamente tracciata una memoria è la storia di una bellissima esperienza lavorativa e sociale. Il progetto del Celdit Museum, da realizzare magari all’interno di una delle poche strutture della fabbrica rimaste in piedi, un tempo destinate agli alloggi dei dirigenti, deve andare avanti. Qui, sotto le stesse palazzine, c’era anche un bel campo da tennis che, qualche volta, noi ragazzi del villaggio riuscivamo a frequentare. Anche con buoni risultati, facendo valere un’esuberanza atletica coltivata in tanti giochi di destrezza messi assieme in piazzetta». La voce di Ugo si incrina, prende decisamente il sopravvento la nostalgia e, chissà, può anche giungere, provvidenziale, il suono della sirena della fabbrica di papà.

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