«Ridacci i soldi, cialtrone», cliente condannato a risarcire il ristoratore con 15mila euro

21 Ottobre 2025

Il giudice sul post apparso su Facebook: «Danneggiata la reputazione del locale Si è andati ben oltre il diritto di critica. E nessun altro si è lamentato della cena»

CHIETI. «Ridateci i soldi di capodanno, cialtroni». Poche parole, scagliate sulla pagina Facebook di un noto ristorante, il 25 gennaio 2019. Ora il tribunale di Chieti ha stabilito che non si tratta di una critica severa, ma di un’offesa basata su una notizia falsa. Questo commento è costato 15.000 euro a un cliente di 52 anni. La cifra è il punto di arrivo di una sentenza civile del giudice di pace onorario Filomena Maria Cofone, che ha quantificato il danno per un insulto che ha leso la reputazione del locale.

La condanna pronunciata nell’aula di giustizia si inserisce nel contesto della critica gastronomica online, diventata un campo di battaglia quotidiano. Per ogni recensione costruttiva, esistono commenti che mirano a distruggere la reputazione di un locale. È un fenomeno che i ristoratori conoscono bene: la fama digitale, costruita in anni di lavoro, fatica, investimenti e sacrifici, può essere minata in pochi minuti da post aggressivi, spesso anonimi o superficiali. La sentenza di Chieti, tuttavia, traccia una linea netta, un confine legale che ricorda come lo schermo di un social network non offra impunità e che attribuire fatti falsi ha conseguenze precise.

La vicenda giudiziaria che porta a questo risarcimento è complessa e si è mossa su un doppio binario, penale e civile. Tutto ha inizio con quel post e la successiva denuncia-querela del ristoratore. In un primo momento, il tribunale di Vasto (competente in ragione del luogo di residenza del 52enne) aveva chiuso il caso dichiarando l’imputato non punibile per particolare tenuità del fatto. Ma il ristoratore, sentendosi danneggiato nell’onore professionale e negli affari, ha impugnato quella decisione, sostenendo che l’impatto di quel commento fosse tutt’altro che «tenue».

La svolta arriva con la Corte d’Appello dell’Aquila. Con una sentenza pronunciata il 9 novembre 2023 e divenuta definitiva e irrevocabile il 29 febbraio 2024, i giudici del capoluogo di regione hanno riformato il verdetto di primo grado. Hanno stabilito che il 52enne era civilmente responsabile di diffamazione aggravata per il fatto commesso, pur confermando l’assenza di punibilità penale per la tenuità. Al tempo stesso, la Corte ha demandato il compito specifico di quantificare il danno economico a un separato giudizio civile. Così, forte di quella sentenza penale definitiva che accertava il «fatto-reato», il legale rappresentante del ristorante – assistito dall’avvocato Diego Bracciale – ha avviato la nuova azione davanti al tribunale civile di Chieti. Ha chiesto che l’autore di quel reato, ormai appurato, pagasse il conto per il danno d’immagine e per le perdite economiche subite. All’appuntamento con la giustizia civile, però, il 52enne non si è presentato. La sentenza lo definisce «resistente contumace». Una sedia vuota, una scelta processuale che, tuttavia, non ha fermato il procedimento, perché i fatti principali erano già stati cristallizzati e resi incontrovertibili dalla Corte d’Appello.

Il giudice civile teatino ha quindi dovuto esaminare le conseguenze concrete di quel post. Il 52enne aveva pubblicato il commento offensivo sulla pagina Facebook dell’azienda, che all’epoca era seguita da circa duemila persone. L’accusa contenuta nel post – «Ridateci i soldi» – è stata smontata in aula. Come emerge dagli atti, una donna che gestisce di fatto l’attività ha dichiarato in tribunale che la sera di Capodanno, oggetto della polemica, «nessuno si era lamentato» e che, anzi, «nelle vesti di direttrice di sala», aveva parlato con tutti i clienti ed erano «tutti contenti».

La sentenza sottolinea quindi un punto decisivo: «L’offesa profferita conteneva una notizia falsa». Si trattava, secondo la valutazione del giudice, dell’attribuzione di un comportamento disonesto («cialtroni») basata sul nulla e con l’intento di danneggiare, ben diversa da un’opinione su un piatto («non mi è piaciuto»). Il danno, però, non è stato solo d’immagine. Il post è rimasto visibile sulla pagina per un periodo «considerevole» di due o tre mesi. Il gestore ha documentato che, proprio a seguito di quel commento, «ben due prenotazioni (una di 30 persone e una di 80 persone) sono state disdettate», causando una perdita secca immediata. Si è verificata anche una «flessione degli avventori», più difficile da quantificare ma reale, anche nei cinque o sei mesi successivi.

Il giudice di pace, basandosi sulla sentenza penale (ormai indiscutibile sull’accertamento del fatto) e sulle prove dei danni, ha dunque emesso la condanna. L’uomo deve pagare 15.000 euro a titolo di risarcimento integrale. La somma è stata così divisa: 12.000 euro per il danno non patrimoniale («la lesione della reputazione e la sofferenza soggettiva») e 3.000 euro liquidati in via equitativa per il danno patrimoniale («le perdite economiche»). A questa cifra si aggiungono le spese processuali, ovvero 3.397 euro più oneri di legge.

Questa sentenza si inserisce nel quadro generale delle liti nate sulle piattaforme social. La giurisprudenza sta tracciando una linea netta: da un lato esiste il diritto di critica, anche aspro; dall’altro, esiste l’attacco personale, l’insulto gratuito o l’attribuzione di fatti falsi, che escono dall’alveo dell’opinione per entrare in quello del reato. Il caso deciso a Chieti è emblematico perché la condanna poggia su fondamenta solide: un precedente giudicato penale sui fatti. Il giudice civile ha solo dovuto quantificare il danno economico che ne è derivato. Insomma, il messaggio ai naviganti è chiaro: dare del «cialtrone» a un ristoratore senza motivo significa infangare il lavoro altrui.