Bollani a Pescara, l’intervista: «Folgorato a 11 anni dalle improvvisazioni del jazz»

Al Pescara Jazz in quintetto con un repertorio inedito che spazia tra jazz, classica e musica brasiliana: “Cicognini? Le musiche di “Miracolo a Milano” sono un vero colpo di genio”
PESCARA. Un nuovo progetto senza precedenti per Stefano Bollani con il suo Quintet. Il celebre pianista e compositore jazz, vincitore di un Nastro d’Argento e di un David di Donatello, sarà domani all’Arena del Porto turistico, a Pescara, ospite, dalle 21.15 del Pescara Jazz. Bollani, maestro nel fare della musica un gioco da reinventare ogni volta, dà vita a un quintetto unico per un tour che attraverserà l’Italia con un repertorio inedito, composto appositamente per questa nuova formazione.
Lo Stefano Bollani Quintet nasce dall’incontro fra cinque straordinari talenti musicali, ciascuno con una visione artistica distintiva. Sul palco, Jeff Ballard, batteria, Larry Grenadier, basso, Vincent Peirani, fisarmonica e Mauro Refosco, percussioni, accompagnano il compositore dal talento poliedrico.
Uno spirito di continua esplorazione che spazia tra jazz, classica e musica brasiliana, Bollani ha collaborato con leggende come Chick Corea, Pat Metheny, Enrico Rava e Richard Galliano e suonato con orchestre sinfoniche e con direttori d’orchestra di fama mondiale, tra cui Riccardo Chailly, Antonio Pappano e Zubin Mehta. Parallelamente, è autore di libri e protagonista di spettacoli teatrali e programmi televisivi come Via dei Matti Numero Zero su Rai3.
Pescara è la seconda tappa del tour estivo, iniziato a Carpi il 9 luglio.
«Sono molto contento di portare in giro per l’Italia un progetto completamente nuovo perché la musica l’ho scritta in questi mesi, pensando ai cinque musicisti che formano la mia band, e poi in una giornata di prove l’abbiamo costruita tutti insieme. Per i musicisti di Jazz è già tantissimo, visto che in genere le prove le facciamo raramente» (sorride ndr).
Un lavoro inedito…
«Si, è un quintetto composto da musicisti con cui ho già collaborato altre volte, Jeff Ballard, batteria, Larry Grenadier, basso, con loro in trio venticinque anni fa, e Vincent Peirani, fisarmonica è una conoscenza recente, abbiamo registrato un disco insieme, tranne che con il percussionista, Mauro Refosco, un musicista brasiliano, questa per noi due è la prima volta che suoniamo insieme».
Ma chi è Stefano Bollani e come era da bambino?
«Ero già molto appassionato di musica e del palcoscenico in generale, volevo fare il cantante e l’attore».
E invece poi ha scelto il pianoforte.
«Il piano mi serviva per accompagnare la mia voce. Però la folgorazione è arrivata a 11 anni, quando ho scoperto il jazz e in particolar modo quando ho visto per la prima volta che i jazzisti stavano improvvisando. Per me era stupefacente, perché fino a quel momento credevo che per imparare a suonare, e quindi a fare musica, servisse solo tanto studio».
Bollani da anni è in televisione, su Rai3 con Via dei Matti numero zero”, dove dialoga con tanti grandi artisti. Come è nata la trasmissione?
«Nasce nel periodo covid, quindi quando non si poteva più uscire e andare nei teatri o negli stadi a sentire concerti di musica in generale. E nasce da un’idea di Franco Di Mare, e per questo non smetterò mai di ringraziarlo. Tanti anni prima lo facevo dopo la mezzanotte proprio per i cultori di musica. Siamo in uno studio, io e mia moglie Valentina (Cenni ndr), molto simile a casa nostra. Andare in onda all’ ora di cena permette di intercettare un pubblico molto vasto che prima non avevamo».
In questo modo inoltre avvicinate anche chi non è un appassionato di musica.
«Proprio così! Un modo per fare divulgazione musicale».
Un modo per dire che la situazione nel campo della musica jazz e non solo, oggi, in Italia non è delle migliori?
«Nel mondo del jazz e temo anche in quello del pop e direi anche della musica classica, sta scomparendo una rete di ascolto di musica live della fascia media. Intendo dire che un tempo esisteva un tessuto di locali molto grandi o di teatri piccoli, che davano la possibilità ad artisti di esprimersi con la loro musica, pur non essendo ancora nella posizione di poter richiedere il pagamento di un biglietto a un costo elevato. Oggi o si paga tantissimo per sentire big oppure a costo zero si può andare in un locale della propria città e vedere giovani ragazzi che suonano e che tuttavia resteranno fermi lì. È un vero peccato perché si rischia di perdere la quotidianità della musica».
Per esempio?
«Faccio un esempio pratico: Pescara stessa ha un festival jazz meraviglioso ma durante l’anno sono sempre meno le occasioni di ascoltare un concerto jazz. Si deve aspettare che passi il grande nome pagando al contempo tanto per ascoltare musica. Di conseguenza è un peccato per i musicisti che lavorano meno ma anche per il pubblico che ascolta sempre meno musica. Il discorso credo che valga anche per i cantanti: o vanno a Sanremo perché dietro hanno una grande casa discografica oppure niente».
Un posto importante per lei ce l’ha Renato Carosone. È vero che gli scrisse una lettera?
«Come no! Ero piccolo. Gli scrissi per dirgli che ero un suo fan e che avevo imparato tutti i suoi pezzi. E lui mi rispose: “studia il blues, è la base della musica moderna”».
E infatti poi ha firmato le musiche per il film Carosello Carosone, del 2021, centenario della sua nascita, vincendo anche il Nastro d’Argento. Come è nato questo lavoro?
«Ero al settimo cielo quando ho ricevuto la telefonata. Mi chiesero di scrivere un triplo intervento: in primis realizzare la colonna sonora, poi realizzare le canzoni di Carosone insieme agli attori che lo interpretavano. Andavano rifatte pedissequamente. Io che di solito cambio i pezzi, gli accordi, la struttura, insomma improvviso parecchio, in questo caso mi sono divertito molto a rifare i brani esattamente come li aveva pensati Carosone. Quasi come uno spartito di musica classica. Infine, il terzo intervento consisteva in un mio piccolo ruolo: ero il maestro di Carosone. C’è una scena in cui rimprovero Carosone (l’attore Edoardo Scarpetta, ndr), ma le mani riprese sono le mie. In pratica rimprovero me stesso (ride ndr), volendola analizzare c’è della psicoanalisi in questa scena! E come direbbe Bruno Tommaso, grande contrabassista “Salire sul palco è molto più conveniente che pagare uno psicanalista”, quando si è sul palco uno impara molte cose di sé stesso».
Nel 2023, poi, vince il David di Donatello per il Pataffio.
«Credo i David siano l’unico caso di un concorso in cui non si sa nulla su chi sia il vincitore. Sei seduto in sala senza sapere se ti alzerai per ritirare il riconoscimento oppure no, finché non viene detto il tuo nome. È un’emozione completamente inaspettata».
Quindi continuerà a scrivere colonne sonore?
«Assolutamente. A ottobre uscirà un film di animazione francese, presentato a Cannes, con le mie musiche. Anche in questo caso mi sono divertito come un pazzo, prima di tutto perché sono fan dell’animazione in generale e del regista Sylvain Chomet, inoltre perché abbiamo fatto le cose in grande stile».
Le cito due grandi compositori del ‘900, Nino Rota e l’abruzzese Alessandro Cicognini, di cui quest’anno ricorre il trentennale dalla scomparsa.
«Parto da Rota, uno dei compositori che più mi emoziona. Lui è l’esempio di ciò che dovrebbe essere un musicista: quasi fosse un angelo che trasporta un messaggio, nel suo caso si fa veicolo della musica. Come se questa gli arrivasse quale ispirazione divina. Mi dispiace non averlo conosciuto, ma dai racconti viene descritto con “la testa particolarmente fra le nuvole”, e a me quelli che sembrano vivere in un mondo tutto loro mi piacciono molto».
La incuriosiscono?
«Si, mi verrebbe da chiedere che cosa vedono in quelle nuvole».
E poi?
«E poi è uno dei compositori più importanti, più prolifici ed eclettici d’Italia. Ricordiamoci che ha scritto Viva la pappa col pomodoro e concerti con orchestra. Insomma è il mio autore di riferimento»
E invece Cicognini?
«Era il compositore di Vittorio De Sica, ha scritto le colonne sonore di Ladri di biciclette, Il Giudizio universale, per il quale aveva composto una malinconica Ninna nanna: sapeva giocare su un doppio registro musicale comico/drammatico: era straordinario in questo. Le musiche del film Miracolo a Milano sono un vero colpo di genio. E vorrei precisare una cosa…»
Prego.
«Scrivere musiche originali per un film significa comporre qualcosa che si adatti alle immagini e ovviamente alla storia. Potrebbe sembrare una cosa scontata, ma non lo è. Ecco, Cicognini, Rota, Morricone erano sicuramente dei geni».
Lei invece come compone?
«Ogni volta può nascere in maniera diversa. In tutte e tre le volte che ho scritto musiche per film, sono stato coinvolto prima che la scena veniva girata, perché spesso c’è bisogno di far cantare o fischiettare all’attore il tema musicale principale. Io personalmente preferisco confrontarmi con il regista e quindi lavorare in fase di sceneggiatura e successivamente adattare la musica alle immagini. Solitamente funziona, perché mentre il regista gira ha già in mente la musica»
Nel 2010 ha inciso un album “Rhapsody in Blue”, con il direttore Riccardo Chailly. Grande successo: 60mila copie vendute, diventa disco di platino.
«Posso dire che quella volta ero spaventato di lavorare in questo progetto meraviglioso, indossavo per la prima volta la veste del pianista classico, ma Chailly è stato molto bravo a convincermi, così mi sono messo sotto con lo studio e grazie al suo aiuto sono riuscito in questa prova»
Sfatiamo il mito che i migliori non hanno mai paura davanti alle sfide. Nel suo caso era il mondo classico, perché?
«Perché suonare un concerto in Fa di Gershwin e un concerto in Sol di Ravel è tecnicamente impegnativo. Mi aspettava la Gewandhaus Orchester a Lipsia, e sono arrivato la prima volta sapendo che lì passano grandi pianisti classici di fama internazionale. Poi mi sono ricordato che si vive il presente e quel treno che mi era capitato non potevo perderlo».
Giusto. La sua discografia è vastissima, qual è il disco al quale sente di essere più legato.
«Questa è una domanda difficile, perché sono tutti figli miei, impossibile avere una preferenza. Ogni volta che ascolto un mio disco mi scorrono le immagini in cui ero in studio a registrare, riaffiorano le emozioni di quel momento. Forse però Karioka è il lavoro che mi dà una sensazione differente rispetto agli altri, sempre positiva intendiamoci, perché andai a Rio de Janeiro a registrare e in studio c’era un’atmosfera di festa e al contempo di malinconia, tipica dei brasiliani».
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