L’intervista a Vincenzo Olivieri: «Amo stare tra i ragazzi, il pubblico mi ha spronato nel momento più difficile»

Il comico racconta la sua carriera di cui sta per festeggiare i 50 anni: «Cerco sempre la novità. Con Papa e Di Tonno siamo un grande trio»
PESCARA. È stato Jovanotti, in abruzzese. Un imitatore, uno showman, un cantante. Un mancato doppiatore. Un “bravo ma non si applica” nella scuola di ragioneria in cui non voleva studiare perché, racconta, «nessuno ti insegna a diventare comico, lo sei e basta. Io sono sempre stato un comico, da che ricordi». Vincenzo Olivieri - 66 anni compiuti ad agosto - festeggia nel 2026 i cinquant’anni di carriera. Non è sbagliato dire che ha passato quasi tutta la sua esistenza su un palco, dove torna per quattro date nelle province abruzzesi con Non è mai troppo Abruzzo, lezione spettacolo sulla cultura, la storia, la lingua, il territorio - mercoledì sera al Flaiano di Pescara, martedì 25 al Ridotto dell’Aquila, giovedì 27 al Marrucino di Chieti, sabato 29 al Parco della Scienza di Teramo.
Olivieri, tra poco sono cinquanta. Ha fatto tante cose, ce ne dica una che non è riuscito a fare.
«Una volta ho perso un’enorme occasione».
Siamo tutt’orecchi.
«Ero un ragazzo. Elia Iezzi, doppiatore, sentì la mia voce. Gli piacque, mi portò a Roma per un provino. Sa chi era l’altro ragazzo provinato?».
Chi?
«Roberto Pedicini».
Non c’era partita.
«Macché, ci presero subito entrambi».
Tornate a casa pieni di entusiasmo.
«I genitori di Roberto erano felici. Lui è partito per Roma e ha fatto la carriera che sappiamo. Mio padre mi disse: “Ma per piacere...”».
Ma a cinquant’anni di carriera c’è arrivato anche lei, alla fine.
«Certo, sempre in crescendo».
La grande festa del prossimo anno sarà anche un saluto alle scene?
«Scherza? Voglio fare tante altre cose».
Un momento. Prima ci dica come ha iniziato.
«Al lume di una valvola».
Come, scusi?
«Sì, una volta le radio erano a valvole. Quella vicino casa mia ne aveva una che ci faceva anche da luce. Era il 1976, ho iniziato così».
Aveva 18 anni.
«Gli ascoltatori più lontani erano a Fontanelle, ma io mi divertivo un mondo».
Era già un comico?
«Facevo le imitazioni».
Celentano?
«Beh, anche. Si parte sempre dai classici, ma poi…».
Ha iniziato a raccontare gli Abruzzesi.
«Ho provato a costruire qualche personaggio partendo dalle persone che incontravo per strada. Per esempio: Mario di Spoltore era un contadino rozzo, furbastro…».
Quando Spoltore era campagna.
«Sì, altri tempi».
La svolta?
«All’epoca di un locale storico, “La Balena bianca”. Uno spazio enorme: ristorante, area giochi e un palco dove farti notare».
Come cambiò la sua vita?
«Iniziarono ad entrare i primi soldi veri, cifre importanti. Potevo dire: “Questo è il mio lavoro”».
Prima non lo era?
«Quando da ragazzo andavo a lavorare con mio padre, facevo delle fughe di un’ora per registrare in radio. Non guadagnavo ma mi divertivo».
Ha fatto anche la televisione.
«Per TvQ feci una versione antesignana di Striscia la notizia: Teledicoio, un telegiornale satirico su Pescara, con Giuseppe Rosato come autore. Era una tv pioneristica».
In una città che continuava a crescere.
«In un pezzo famoso dico che c’hanno messo trent’anni per fare la stazione. Poi l’hanno riempita di vetrate come a dire: specchiatevi. Erano lavori interminabili».
Oggi cosa si è perso di quella città?
«Mi viene in mente una vecchia rivalità tra Pescara Nord e Porta Nuova».
Ce la inquadri.
«Guardi, era soprattutto un giocare sugli stereotipi. Mia madre, quando andavo in centro, mi aggiustava i capelli perché diceva che lì bisognava andare in un certo modo».
Ma voi avevate lo stadio.
«Sì, io sono fieramente di viale Marconi. Nato in casa…».
In che famiglia è cresciuto?
«Una normale famiglia borghese. Mio padre era un elettrauto, per lui ho fatto ragioneria…».
Tornando indietro…
«Liceo artistico, senza pensarci».
Quando si dice “la vocazione”.
«I professori ai colloqui dicevano prima le battute che facevo in classe, poi i voti».
Bassi...
«Ero il ragazzo per cui si dice “Bravo ma non si applica”».
E a recitare dove ha imparato?
«Da nessuna parte. Non ho fatto scuole, non ho avuto maestri».
Perché?
«Non volevo fare “la carriera da comico”. Volevo divertirmi, tirando dentro chi si divertiva con me».
Marco Papa.
«Che all’epoca faceva tutt’altro, si occupava di pubblicità».
L’intesa è stata immediata.
«È sempre stato fondamentale. Quando ho dato forma ai primi personaggi, era una spalla importante per dare il là al momento comico».
Con Tiziana Di Tonno siete diventati un trio.
«Solenghi, Marchesini e Lopez. Però in Abruzzo».
Un’ispirazione?
«C’era qualcosa di simile, ma in una chiave locale».
Tutti sbirciano da chi è venuto prima. Ci dica lei chi sbirciava.
«Cochi e Renato».
Surreali.
«All’epoca gli adulti non li capivano, furono il cambio generazionale per la comicità».
Dal Derby di Milano quella comicità deve arrivare ai Pescaresi degli anni ’80. Come?
«Mettendo il non-sense in situazioni nostre, locali. Per questo il comico è prima di tutto uno che sa guardare il mondo che ha attorno. È come fare una fotografia».
Fece storia la gag sui “cammelloni”.
«Vedevo questi ragazzi, alti e robusti, che camminavano ricurvi, stanchi. Inquadrare quella contraddizione conquista ogni tipo di pubblico».
Anche fuori dall’Abruzzo?
«In Puglia, anni fa, mi accolsero con un affetto immenso. Dissi le stesse cose che dico qui...».
In abruzzese?
«No, in italiano. Parlavo dei rapporti genitori-figli, dei cantieri infiniti...».
Ma è stato anche precursore di certe tendenze: i suoi scherzi telefonici hanno anticipato una moda esplosa su internet anni dopo.
«Ho sempre guardato avanti, con il rischio di non venire capito».
Cosa attira la sua attenzione?
«Guardo cosa succede fuori, qualsiasi cosa. Mi chiedo: “Come si può abruzzesizzare?”. Così feci il nostro Jovanotti».
Tarpanotti!
«Give me five divenne Pij le fave. Fu un successo».
Sembra facile.
«Invece si tratta di una cosa che non si insegna: saper guardare».
Cosa vede oggi?
«Tanti giovani con voglia di fare».
Ne coinvolge tanti nei suoi ultimi format.
«Non voglio perdermi il cambiamento. I ragazzi sono il futuro, dobbiamo cercare di capire il mondo che stanno costruendo».
Ci dica come.
«Andando oltre il pregiudizio. Per me molte cose sono respingenti, però mi sforzo di guardare oltre. I ragazzi che incontro hanno tanti talenti, e infatti…».
E infatti…?
«Vorrei fare una tv per ragazzi fatta… dai ragazzi».
Esiste già: si chiama TikTok.
«No! Quelli sono video brevi, vuoti, fatti in solitudine nella propria cameretta. Nella mia idea, loro lavorano in gruppo».
Come?
«Ognuno racconta ciò che lo appassiona. All’inizio ci sarò anch’io, ma vorrei che poi diventasse una cosa tutta loro».
Va bene, diamo un colpo anche alla botte: una cosa dei tempi d’oggi che non le piace.
«La violenza».
C’è sempre stata. O no?
«Non così, mi sembra. Una volta per strada rischiavi di prendere uno schiaffo, un pugno. Oggi vedi ragazzi che escono con coltelli, pistole. Questo mi spaventa».
In “Cinquanta e non sentirli” parlava di società con gli studenti.
«E ora sto lavorando a un nuovo format: un pullman che esplora l’Abruzzo e a bordo i ragazzi e i nonni, in dialogo. Ho già in mente il titolo».
Ci dica.
«Classe terza E…tà».
Bene, allora possiamo tornare all’inizio: vuole fare ancora tante cose.
«Prima di tutto, una grande festa per i cinquanta».
Uno spettacolo? Un nuovo programma?
«Sarà un compleanno diffuso, con tanti eventi distribuiti lungo tutto l’anno».
Tempo di bilanci.
«Sono felice, guardandomi indietro, della carriera che ho fatto».
Il momento più bello?
«Non ne ho uno in mente, è stato tutto bellissimo».
Cosa le piace di questo lavoro?
«Far stare bene le persone. Sa, i medici dovrebbero prescrivere gli spettacoli comici: sei giù di morale, vieni e ti tiri su. Però almeno non paghi».
Due anni fa la perdita di Barbara Paolone, sua moglie. Questa filosofia l’ha aiutata a tornare sul palco?
«Mia moglie mi ha insegnato ad andare avanti, sempre. Annullai tutte le date durante la sua malattia, lei si incazzò. Ho capito una cosa importante».
Quale?
«Sono un comico. Le persone che mi guardano hanno problemi come chiunque altro. Io devo strappare loro una risata, dovevo continuare a farlo anche in quel momento».
L’estate dopo era di nuovo in scena.
«Aiutando gli altri, aiuto anche me».
Ha spiazzato più di qualcuno.
«Certo, mi sarò preso anche un po’ di critiche. Ma c’è un pubblico grande che mi vuole bene».
Alla fine fare il comico l’ha salvata.
«Se mi fermo, crollo. Nella mia testa Barbara è ancora qui a dirmi le sue idee geniali, mi guida in qualsiasi cosa. Ma devo andare avanti, sono un comico».
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