Avagliano e la Lazio del 1974: «Che emozione lo scudetto, quel calcio era pura gioia»

L’ex portiere della squadra biancoceleste campione d’Italia oggi ha 71 anni. Vive a Loreto Aprutino. Ha chiuso la carriera tra Sulmona, Penne e Lauretum
LORETO APRUTINO. «La Lazio per molti anni avrà un ottimo portiere su cui fare affidamento: Giuseppe Avagliano». Era l’estate del 1974 e il tecnico della Lazio, Tommaso Maestrelli, pochi giorni dopo aver vinto il primo leggendario scudetto alla guida dei biancocelesti, parlava in questi termini sul Corriere dello Sport di una giovane promessa tra i pali che da qualche anno si stava facendo le ossa in uno spogliatoio pieno di stelle del calcio nazionale. Giuseppe Avagliano, appunto, per tutti Pino, originario della provincia di Salerno ma da più di 40 anni adottato dall’Abruzzo. Avagliano vive a Loreto Aprutino e oggi è ancora sui campi, nelle vesti di preparatore dei portieri e collaboratore tecnico del Lauretum, in Promozione.
Una storia fatta di 80 presenze nei professionisti tra A, B, C1 e C2. Tutto inizia nel 1970: quel ragazzo di 16 anni di un paesino vicino Nocera Inferiore, dopo alcuni provini con club di serie A, tra cui Napoli e Inter, viene tesserato dalla Lazio. Viene aggregato subito alla Primavera, dove resta per tre stagioni. Poi, arriva la promozione nella rosa della prima squadra nel 1973/1974, come vice di Felice Pulici. Proprio in quel campionato. Sì, quello dello scudetto. Non giocherà in quello squadrone, ma sarà seduto in panchina contro il Foggia, alla penultima giornata, il 12 maggio 1974, giorno della storica vittoria dello scudetto (1-0, rigore di Chinaglia).
Con la benedizione di Maestrelli, l’anno successivo avrebbe dovuto consacrarsi tra i big con il tricolore sul petto. Ma tutto cambia all’improvviso in pochi mesi ed è costretto ad andare in prestito. Lo sceglie il Como in B: dodicesimo a Rigamonti con Marchioro in panchina. Un’altra stagione da secondo, ma con una promozione in serie A da mettere in bacheca. Rientra alla Lazio nel 1975-76, solo per pochi mesi: il tecnico Corsini non lo vede e la società lo manda in prestito in C a Siracusa, a novembre. Ancora Lazio, vice di Garella e poi di Cacciatori, fino al 1979-80. La gioia della prima volta in serie A arriva nella stagione 1977-1978, contro l’Atalanta: dentro al posto di Garella nel ko casalingo (0-2), alla guida c’è Vinicio. «Andai in prestito anche a Modena, Ragusa, Marsala e Savoia, sempre in C. A 30 anni decisi di avvicinarmi a casa, in Abruzzo, e arrivai a Sulmona, con Guido Colangelo. Poi due anni a Penne in Interregionale e le ultime stagioni a Loreto, chiudendo con una promozione alla fine degli anni ’80», racconta Avagliano, che da oltre trent’anni insegna calcio non solo ai portieri, ma a tanti giovani nell’area vestina.
Impossibile dimenticare quegli anni mitici con la Lazio più forte di sempre. «Era una festa continua, un piacere stare insieme a quei ragazzi», racconta l’ex portiere biancoceleste, «Non solo per lo scudetto: ho vissuto tre annate fantastiche. Quel gruppo era fortissimo: prima del titolo era arrivato secondo e terzo. Eravamo una big della serie A. Poi sono accadute tragedie in serie, non si è capito più nulla». La favola di Avagliano era iniziata dopo un Torneo di Viareggio: «Fui eletto miglior portiere. Giocammo contro Hajduk Spalato, Sparta Praga, squadre inglesi, spagnole e francesi. Quel premio fu una bella soddisfazione. E anche a Como fu bello vincere la B, pur non giocando».
Si poteva essere un gregario, un secondo, ma essere ugualmente protagonista di uno spogliatoio di fenomeni. All’epoca Avagliano si allenava con i vari Chinaglia, Wilson, Garlaschelli, Re Cecconi e D’Amico. «Era tutto diverso: c’era più contatto umano, sincerità, spontaneità, più naturalezza. Non parlo solo del calcio, era una vita diversa. Andavamo in ritiro prepartita al cinema, passavamo le vigilie in hotel a giocare a biliardino, a biliardo o a carte. Altro che cuffie e social... La squadra era una famiglia. Presidente e allenatore erano lì con noi, si scherzava e c’era piacere di stare insieme. Quel calcio era gioia». Eppure, per il secondo portiere non era facile emergere: «Le partite ufficiali le giocava il titolare, salvo straordinari. Fare il secondo era un privilegio, dovevi essere una garanzia. Oggi, se sei un dodicesimo, vieni chiamato in causa più spesso, tra Coppe e scelte tecniche. Prima entravi solo c’era davvero bisogno». Inutile ribadire che la figura del procuratore, per molti, era totalmente sconosciuta: «Eri di proprietà della società, che decideva dove andavi a giocare. I contratti li facevi tu: seduto davanti al presidente o al ds, discutevi e firmavi. Non esisteva il procuratore. Né il mercato libero e sempre aperto».
I giovani che salivano dal vivaio venivano protetti e accolti con rispetto. «Pensate che Chinaglia, ragazzo eccezionale che aveva a cuore la squadra, essendo l’uomo più carismatico, faceva battaglie feroci per far prendere i premi a tutti noi ragazzi arrivati dalle giovanili. I primi tempi ci toccavano le briciole, ma lui riuscì con la sua forza a farci prendere gli stessi premi che prendevano i titolari. E lo fece mettere per iscritto. Era il capitano d una squadra fortissima».
Il giovedì si giocava la solita partitina: squadra di Chinaglia contro squadra di Wilson. Scontro tra titani: «Io ero nella squadra di Chinaglia, mi volle lui in quel gruppo. Io ero il pupillo del presidente Umberto Lenzini e Chinaglia era il figlioccio di Maestrelli. Per questo mi voleva sempre vicino a lui. Mi voleva bene».
La carriera di Pino Avagliano, che si gode i ricordi nella sua casa tra gli ulivi di Loreto con la moglie Lina e i figli Carmelita e Gennaro, poteva andare diversamente. Le porte girevoli della vita, però, sono andate in un certo modo... «Premetto: sono soddisfatto, anche se forse ho avuto meno di quello che meritavo. Ma molto di più rispetto ad altri ragazzi della mia generazione. Poteva andare diversamente? Sì, tutto è cambiato con la morte di Maestrelli. Con lui avrei iniziato a giocare, ma il mister si ammalò e arrivò Corsini, che preferì un altro portiere. Fui costretto a cambiare squadra».
Dopo il giro d’Italia con i vari prestiti, il matrimonio con Lina e il trasferimento a Loreto Aprutino. «Mia suocera era originaria del mio paese, Capitello: lì ho conosciuto la mia futura moglie, durante le vacanze estive. Dopo le nozze abbiamo deciso di restare a Loreto e ho fatto una scelta anche calcistica: restare in Abruzzo».
Sulmona, Penne, Lauretum. E tanti pomeriggi sui campi con bambini e ragazzi. «Dico sempre di rispettare loro stessi e gli avversari. Bisogna insegnare il calcio: io mi sono sempre dedicato a questo. Ho allenato anche portieri molto bravi - per merito loro, sottolineo - nelle rispettive categorie. Da Francavillese a Di Quinzio, da Palena a Cantagallo, Di Norscia, Di Matteo e tanti altri».
Ai giovani racconta di partite epiche contro giganti: «Ho visto giocare Rivera, Boninsegna, Mazzola... dal ’73 all’80 ho visto muoversi in campo i più grandi fuoriclasse del calcio italiano». Oggi tutte quelle esperienze e quelle emozioni sono raccolte nei cassetti della sua casa di Loreto, tra articoli di giornale e fotografie, tantissime. E una maglia: quella ricevuta nell’estate del 2024 dalla Lazio per i 50 anni del primo scudetto.
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