Morello suona a Pescara: «Ho 4,5 milioni di follower e non ho idea del perché»

Operatore umanitario dal Congo alla Siria, musicista, creator sui social sarà al Massimo con “Non è un concerto”: storie di bambini e di guerre
PESCARA. Operatore umanitario, musicista e creator sui social. A soli 25 anni, il torinese Pietro Morello è un concentrato di energia ed esperienza che lo hanno portato a operare in luoghi difficili come il Congo, il Ruanda, la Palestina o la Siria. Le chiavi per il suo successo sono la musica, suonata anche con strumenti ricavati da oggetti improbabili, e il sorriso dei bambini. Il suo percorso, dalle zone di guerra agli ospedali, passando per le baraccopoli nelle discariche, è seguito online da oltre 4,5 milioni di follower e ora anche dal vivo grazie allo spettacolo “Non è un concerto” che farà tappa al teatro Massimo di Pescara il 1° dicembre.
Non è un concerto. Cosa aspettarsi?
Le storie dei bambini, storie di guerra e di ospedale. Tutto quello che i bambini sono riusciti a raccontarmi su di loro, la loro felicità, paura, tristezza, voglia di vivere. La musica è un filo rosso che cuce insieme le storie.
Perché così tante persone la seguono?
Non ne ho idea. Penso che il tema della musica sia molto orizzontale, quindi chiunque si può ritrovare, non solo i musicisti. La musica è un linguaggio emotivo talmente grande che bene o male tutti ce l’abbiamo tra le mani.
Chi sono i suoi follower?
È una fascia meravigliosamente ampia. Ci sono ragazzi sui 14/15 anni, ma anche tanti adulti. Nei messaggi trovo tanti genitori che mi dicono che sono stati i loro figli a fargli conoscere il mio profilo.
Come è iniziato il suo percorso con i bambini?
I miei genitori sono insegnanti, mia sorella è una maestra, quindi siamo tutti così in famiglia. Io ho iniziato la prima missione umanitaria a 18 anni, al confine tra Romania e Ucraina, con un grande senso di avventura, senza sapere cosa avrei trovato. Sono finito in un posto difficilissimo, post-guerra, dove i bambini ridevano. Vedere i bambini che attuavano questa dicotomia così importante della risata in baraccopoli di guerra mi ha fatto capire che c’era un investimento molto importante a livello emotivo.
Come si fa a rimanere felici davanti a situazioni simili?
I bambini sono il mio power bank. È inevitabile che determinate scene lascino strascichi emotivi importanti. Ma i bambini hanno la capacità intrinseca di avere voglia di essere felici. Noi la perdiamo, abbiamo sempre voglia di raccontarci tristi. Quando ci si immerge nel loro modo di vedere le cose, si ritrova un po’ di serenità anche in teatri di guerra o in ospedale.
Quanto aiuta la musica?
Non aiuta in questo. Aiuta invece a comunicare. È un linguaggio emotivo, è più una valvola di sfogo, uno psicologo, un compagno per affrontare le cose.
C’è stata una situazione in cui ha pensato: “è troppo”?
Sarei il finto eroe di poco e niente se dicessi di no. Ci sono state un sacco di volte in cui ho avuto una paura pazzesca perché, quando cadono le bombe, corri, cadi nel filo spinato, ti fai male, fa una paura nuova. Ma anche quando ti senti solo. Mi è capitato in una missione in Congo, c’era stato un attentato, diluviava e io sono stato bloccato per diversi giorni, solo, senza un pezzo di carta, batteria, una matita, i bambini. Queste sono situazioni che ti fanno perdere la connessione con te stesso.
Chi sono i suoi mentori?
Sul fronte umanitario, Gino Strada perché la sua “verve di antipatia” nel continuare dritto per la sua strada è stata molto di ispirazione. E poi quelli che sono stati anche i miei formatori: Paola Viola di Una mano per un sorriso e Dennis Treu di Okapia. Per la musica, un mostro sacro come Lucio Dalla, che ha tirato fuori il meglio di me, e guardando al presente Jacob Collier, un fenomeno dal punto di vista musicale, che ha un sacco di attinenze con me nel modo di fare i concerti.
Qual è stata, finora, la sua soddisfazione più grande?
Dal punto di vista lavorativo, concretizzare i numeri dei social dentro un teatro è impagabile. Dal punto di vista emotivo, invece, tutte le volte che i bambini si confidano con te perché tu hai passato anni con loro, li hai visti crescere, magari li hai tirati fuori da una discarica dove sarebbero sopravvissuti poco. Sono soddisfazioni talmente alte che non giocano neanche nello stesso campionato.
Come fa un influencer a “sopravvivere” senza connessione?
Io per fortuna non sono dipendente al 100%. Come tutti quelli della mia generazione, ho una discreta dipendenza dal cellulare e dallo scrolling compulsivo. Ma quando sono in determinate situazioni c’è talmente tanto altro che consente al mio essere un meraviglioso Adhd (il disturbo da deficit di attenzione/iperattività ndr) di avere i giusti stimoli.
C’è un posto nel mondo dove le piacerebbe operare?
Finora ho toccati molti in cui desideravo andare. Resta la Somalia. Il lavoro coi bambini-soldato è un progetto che vorrei intraprendere, ma con calma perché lì si pestano facilmente piedi sbagliati e un operatore umanitario morto è un operatore umanitario inutile.