Riondino: porto a Pescara l’anteprima di Palazzina Laf storia vera nella mia Taranto

L’attore debutta dietro la macchina da presa con un film d’inchiesta: «Fu il primo esempio di mobbing in Italia, era necessario raccontarlo»
PESCARA. «Una storia che a Taranto conosciamo bene, l’abbiamo sentita dai nostri padri e nonni, che facevano gli operai, proprio nel momento in cui accadevano quelle cose. Ma era una storia di lavoratori ritenuti lavativi, nullafacenti, e per questo motivo confinati in quel luogo. Ho scoperto invece una storia diversa, che ho voluto raccontare». Al telefono con il Centro, Michele Riondino racconta com’è nata la sua opera prima “Palazzina Laf”, che domani, 27 novembre, presenterà in anteprima al multiplex Arca di Spoltore (ore 20.45) con il critico Francesco Di Brigida. Il 44enne attore di cinema, teatro, televisione, già regista per la scena, è nato a Taranto, città la cui storia si intreccia a quella delle acciaierie Ilva, che incombono sulle vite. Per il debutto dietro la macchina da presa Riondino ha scelto di narrare la vera storia del luogo che dà il titolo al suo film, presentato alla 18ª Festa del Cinema di Roma nella sezione non competitiva Grand Public e designato Film della critica dal Sindacato nazionale critici cinematografici. Uscita in sala il 30 novembre. Oltre a dirigere “Palazzina Laf” Riondino ne è interprete con Elio Germano, Vanessa Scalera, Domenico Fortunato, Gianni D'Addario, Michele Sinisi, Fulvio Pepe, Marina Limosani, Eva Cela, Anna Ferruzzo, Paolo Pierobon. Musiche Teho Teardo, di Diodato la canzone “La mia terra”. La Palazzina Laf (Laminatoio a freddo) nel complesso industriale Ilva a fine anni Novanta era il luogo in cui venivano emarginati i dipendenti scomodi. La vicenda del film, ambientata nel 1997, vede protagonista il semplice e rude Caterino Lamanna (Riondino), uno dei tanti operai Ilva. Quando i vertici aziendali decidono di usarlo come spia per individuare i lavoratori di cui liberarsi, Caterino inizia a pedinare i colleghi e a partecipare agli scioperi in cerca di motivi per denunciarli. Non capendone il degrado, chiede di essere collocato pure lui nella Palazzina Laf, dove alcuni dipendenti, per punizione, sono relegati e privati delle mansioni. Esclusi dalla produzione, passano le giornate a far niente. Caterino scoprirà che quello non è un paradiso, ma un luogo in cui la perversa strategia aziendale colloca i lavoratori sgraditi per piegarli psicologicamente e spingerli alle dimissioni o al demansionamento.
Riondino, fu un vero e proprio mobbing.
Sì, oggi diremmo così per casi come quello della Palazzina Laf, ma all’epoca la parola nemmeno esisteva. Fu il primo esempio di mobbing in Italia e un caso giudiziario che ha fatto scuola.
Lei e il co-sceneggiatore Maurizio Braucci siete partiti dal libro “Fumo sulla città” del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande.
Avrebbe dovuto anche lui firmare la sceneggiatura, ma purtroppo durante la lavorazione del film è venuto a mancare. Il film è anche un omaggio alla sua opera. L’indagine sui reparti lager del sistema industriale italiano è una delle produzioni di Alessandro.
Com’è arrivato a scoprire una storia diversa da quella raccontata a casa? Perché quei lavoratori venivano confinati nella Palazzina Laf?
Il motivo è che non accettavano la clausola contrattuale che li avrebbe demansionati, erano 79 lavoratori altamente specializzati, dei quadri. Era necessario trovare e raccontare la storia di ricatto a cui siamo stati sottoposti noi tarantini. Io avrei dovuto sostituire mio padre nelle acciaierie nel suo stesso ruolo e reparto. Una strada a cui ti indirizzavano gli stessi sindacati, che si ripeteva di generazione in generazione. Chi era figlio di operaio era destinato a diventare operaio, a prescindere dalla formazione.
Su quali fonti ha lavorato?
Ho rintracciato i confinati della Palazzina Laf. La fase di ricerca è durata sette anni. Oltre agli ex operai ho incontrato e intervistato la psichiatra che li aveva in cura, i procuratori, gli avvocati, ho studiato le carte processuali. La sentenza definitiva del 2005 ha condannato i responsabili per violenza privata, perché prima nemmeno esisteva la parola mobbing, da allora entrata nel linguaggio giuridico e processuale.
Aveva già fatto regie a teatro, per dirigere un film aspettava una storia forte come questa?
Avevo questa storia pronta da sette anni. Mi dedico da tempo alla storia tarantina e dell’Ilva, ho organizzato dibattiti, concerti, ho raccolto materiale, e ho sempre pensato che questa era la storia giusta per il debutto alla regia di un film.
Nonostante tanto teatro e cinema la popolarità è arrivata con “Il giovane Montalbano”. Come ha affrontato un personaggio così amato dalla grande platea televisiva?
Come una sfida, che mi è stata lanciata tanto tempo fa. Alla fine l’ho accettata con alcune riserve, ma ho avuto un risultato di pubblico molto importante, per cui sono contento di aver interpretato il giovane Mntalbano.
All’epoca si è confrontato con Camilleri?
È stato importante per me parlare con lui, anche per costruire il personaggio.