Cialente e quella telefonata di Bertolaso sulla Grandi Rischi: «Sbagliato tirarla fuori di nuovo: è come un petardo nel pagliaio»

L’ex sindaco dell’Aquila: «Ritengo sia stato un errore del responsabile della Protezione Civile, stupito dal confronto con il pm Picuti». E sullo scontro con i familiari delle vittime: «Parliamo di ferite aperte che non si cicatrizzeranno mai»
L’AQUILA. «La comunicazione non poteva essere diversa, anche perché si era diffusa la convinzione che lo sciame sismico stesse scaricando energia. Certo, tirare fuori l’intercettazione è stato come accendere un petardo in un pagliaio». Massimo Cialente era sindaco dell’Aquila durante il tragico terremoto del 6 aprile 2009. Ha dunque vissuto in prima persona l’intera vicenda, facendo anche parte della famosa riunione della Commissione Grandi rischi. Dopo il confronto di venerdì scorso tra il pubblico ministero Fabio Picuti e l’allora responsabile della Protezione civile Guido Bertolaso, il tema della gestione comunicativa di quell’evento è tornato all’attenzione pubblica. Alcuni familiari delle vittime sono intervenuti all’iniziativa, imputando a Bertolaso delle responsabilità per quella telefonata con l’allora assessore Daniela Stati in cui viene indetta la riunione della Grandi rischi, definita una “operazione mediatica”. In questo senso, Cialente offre una testimonianza diretta di chi ha vissuto quella fase non solo come aquilano ma anche come amministratore pubblico.
Che ne pensa dell’incontro Picuti-Bertolaso?
«Devo dire che trovare dalla stessa parte del tavolo l’inquirente e l’imputato mi ha stupito, non so se è stata una buona idea. Come puoi segnare i confini, dove trovi il bandolo per srotolare la matassa che ha rappresentato quell’evento? Mi dispiace per Picuti, perché mi hanno detto che il libro è molto bello».
Si aspettava che si potesse creare questa situazione, con un familiare delle vittime che attacca pubblicamente Bertolaso?
«Non proprio. Ma è anche vero che per i familiari delle vittime parliamo di una ferita che non sarà mai cicatrizzata. Sa, tanti di noi hanno vissuto quella tragedia con il pensiero di non poter fare nulla. Io, da sindaco, dopo il sisma mi sono sentito in colpa, come se avessi dovuto impedirlo».
La tensione si è alzata dopo che Bertolaso ha deciso di parlare della famosa telefonata con Stati.
«Direi che ha sbagliato a parlarne, perché ha acceso un petardo nel pagliaio. Come le ho detto, è una ferita aperta che non guarirà mai. Ma quella chiamata nasce da un comunicato sbagliato della Protezione civile regionale e dal clima che si era venuto a creare».
Ovvero?
«Prima di tutto si era diffusa l’idea che il terremoto stesse scaricando energia e che ciò fosse una cosa positiva. C’era poi chi, una settimana prima del terremoto, chiese l’evacuazione di Sulmona perché pensava di poterlo prevedere, una cosa che a me sembrava una presa per i fondelli: ma quali previsioni si possono fare su un terremoto? Sono convinto che fu convocata per dire che i terremoti non si potevano prevedere. Ma fu un errore farla».
Lei faceva parte di quella riunione.
«Sì, ricordo di essere arrivato che era già iniziata. Ho una scena in testa che ricordo come se fosse un film: Enzo Boschi che ha uno scatto d’ira contro Daniela Stati, qualcosa che mi sorprese nei toni e nei modi, perché parlava a una figura istituzionale, per giunta rappresentata da una donna».
Perché si arrabbiò?
«Perché Stati chiedeva che cosa ci si poteva aspettare e Boschi trovava – evidentemente – sbagliata quella domanda. Rispose che poteva essere tra una settimana, un mese o un anno, che non si poteva sapere e che dunque bisognava essere pronti. Ricordo anche che mi allarmò sentire che quello sciame sismico era caratterizzato da alta accelerazione. Ad ogni modo, furono sbagliati i motivi della riunione e il racconto che ne fu fatto fu incentrato a tranquillizzare la popolazione».
Intende dire che la Grandi rischi all’epoca fece delle scelte comunicative sbagliate?
«Alla riunione il clima era pesante, perché il problema era far capire che i terremoti non si possono prevedere. Poi fuori, tra quella famosa intervista e la conferenza stampa, passò un altro tipo di messaggio. Le racconto una cosa che dà l’idea dell’aria che si respirava in quella fase».
Prego.
«In quel famoso lunedì – se non ricordo male poco prima delle 15 – quando ci fu la scossa di magnitudo 4, andai immediatamente alla scuola elementare De Amicis, dove io stesso avevo studiato. Era da un po’ che mi preoccupava e decisi di andare a controllare la situazione. I ragazzi erano tutti usciti ordinatamente dall’edificio, ma quando entrai vidi che la mia vecchia aula aveva subìto danni dalla scossa, con il soffitto che si era sostanzialmente staccato. A quel punto decisi di dichiarare inagibile l’istituto. Lei non ha idea di quello che mi vennero a dire insegnanti e genitori. Me ne dissero di tutti i colori».
È solo per la Grandi rischi che la memoria di Bertolaso all’Aquila è divisiva?
«Certamente per questa vicenda, ma penso anche perché ci fu una polarizzazione della narrativa della gestione del terremoto. Per la sinistra, allora all’opposizione, il governo sbagliava tutto; dall’altra parte, per il governo erano loro, insieme alla Protezione civile, a fare tutto. Se c’era qualcosa di sbagliato, però, la colpa era del sindaco».
E lei che ricordo ha di Bertolaso e della Protezione civile nella fase emergenziale?
«Per alcuni versi veramente positiva, da tutta Italia arrivò una grande mano. La generosità di tutte le varie protezioni civili che si riversarono all’Aquila fu enorme. Bertolaso è un uomo capacissimo ed era leader di un gruppo di persone veramente di livello. Ma relazionarsi con lui a volte fu un braccio di ferro, perché entrambi abbiamo caratteri molto decisi. Però, per esempio, riuscire a far riaprire le scuole il 15 settembre successivo fu un miracolo».
Si poteva fare qualcosa diversamente?
«La verità è una: prevedere questo tipo di fenomeni è impossibile. Sono eventi periodici che si ripetono nel tempo ma non sai quando né come. Le dico questo: nei Campi Flegrei oggi si sta vivendo la stessa situazione di 16 anni fa. Per me l’unica soluzione è mettere in sicurezza gli edifici strategici. L’alternativa è chiudere uffici, ospedali, scuole, in attesa di un evento che non sai quando arriverà. E non si può fare».
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ECCO COSA E’ ACCADUTO CON VITTORINI
È stato un ritorno all’Aquila ad alta tensione quello di venerdì scorso per l’ex responsabile della Protezione civile nazionale Guido Bertolaso, rientrato nel capoluogo abruzzese a oltre 16 anni di distanza dal tragico sisma del 6 aprile 2009, in cui svolse un ruolo di primo piano nella gestione dell’emergenza e per cui è anche finito sotto processo per il caso Grandi Rischi bis (conclusosi con l’assoluzione). L’occasione per tornare è stata la presentazione di “John 3.32”, libro sugli anni del terremoto scritto dal pubblico ministero Fabio Picuti, lo stesso che indagò su Bertolaso in quel processo. A moderare il caporedattore del Tgr Paolo Pacitti. La tensione si è alzata dopo che Bertolaso ha riesumato quella famosa telefonata con l’allora assessore regionale Daniela Stati in cui comunicava che ci sarebbe stata una riunione della Grandi Rischi, definendola una “operazione mediatica”. Bertolaso ha ricordato di essere stato assolto e di aver rinunciato ai test a difesa pur di ricevere la sentenza e non far scattare la prescrizione. A questo punto si è alzato dalla platea Vincenzo Vittorini, che ha perso moglie e figlia nel sisma, per chiedere di poter parlare. Salito sul palco, ha chiesto di far sentire l’intercettazione per intero, imputando a Bertolaso di averne raccontata «solo una parte». La chiamata non è stata fatta ascoltare, i toni si sono alzati e la presentazione si è conclusa di lì a poco. A 16 anni di distanza, le polemiche non accennano a finire.