Concorso di colpa delle vittime: il Comune chiede soldi ai familiari 

Nuovo capitolo della battaglia giudiziaria, l’avvocatura dell’amministrazione reclama le spese legali  L’avvocato Piccinini (mamma di Ilaria Rambaldi): «L’ente non aspetta l’appello e vuol essere pagato»

L’AQUILA. Batte cassa anche il Comune. Non c’è soltanto lo Stato a rivolere i soldi dai familiari delle vittime del terremoto, ma anche l’avvocatura comunale che, per conto dell’amministrazione, chiede le spese legali. La denuncia arriva dall’avvocatessa Maria Grazia Piccinini di Lanciano, mamma di Ilaria Rambaldi, studentessa di Ingegneria edile-Architettura che ha perso la vita il 6 aprile 2009 nel crollo del palazzo di via Campo di Fossa 6B. «Il Comune dell’Aquila», denuncia l’avvocatessa Piccinini, «ci scrive perché non vuole aspettare l’appello della famosa sentenza e vuole essere pagato. Non vi spiego l’intreccio di chiamate in causa perché sarebbe troppo lungo. Sappiate solo che il Comune, senza aspettare l’esito dell’appello, ha chiesto il pagamento da parte delle famiglie delle vittime».
messa in mora
L’indignazione dell’avvocatessa scaturisce dall’istanza dell’avvocatura comunale in relazione agli effetti della sentenza del 9 ottobre 2022 del giudice Monica Croci (ora destinata ad altro incarico). Il pronunciamento è noto come sentenza choc in quanto riconosce un concorso di colpa pari al 30% da parte delle vittime del crollo di via Campo di Fossa, accusate, nella sentenza, di aver tenuto una condotta incauta per essere rimaste in casa trovando poi la morte la notte del sisma. Un pronunciamento che ha varcato i confini regionali approdando fino in parlamento e scatenando un’ondata d’indignazione.
il comune vuole i soldi
I familiari delle vittime del crollo dell’immobile di via Campo di Fossa 6B hanno chiamato in causa, con distinti ricorsi, oltre ai ministeri dell’Interno (prefettura) e delle Infrastrutture e alle eredi del costruttore, anche il Comune. L’ente, a sua volta, aveva chiamato in causa il terzo, cioè gli eredi del progettista del palazzo, nonché la propria assicurazione. Il Comune, infatti, nel costituirsi in giudizio, contestava la configurabilità di una propria responsabilità per il crollo, osservando che «le verifiche demandate all’ente comunale ai fini del rilascio del certificato di abitabilità avvenuto in data 3 settembre 1964 avevano carattere prettamente urbanistico e/o igienico-sanitario, ma nulla che attenesse alla stabilità e idoneità costruttiva dell’edificio», come si legge nella sentenza Croci. «Il Comune deduceva, inoltre, come la responsabilità per il crollo dovesse imputarsi alla condotta del tecnico progettista e autore dei calcoli dell’edificio». Da qui la chiamata degli eredi e dell’assicurazione che, in caso di condanna per l’ente, avrebbe dovuto tenerlo indenne dai pagamenti, oltre alla richiesta di accertare il grado di responsabilità delle altre pubbliche amministrazioni convenute e dei convenuti chiamati (eredi del progettista). La sentenza choc scagiona il Comune «posto che», scrive la giudice, «il controllo a detto ente demandato dalla disciplina prevede un controllo meramente formale circa l’esistenza delle autorizzazioni di competenza di Genio civile e prefettura, sicché non si ravvisa un’omissione rilevante». Per effetto della sentenza, dunque, da un lato il Comune deve avere 13.430 euro dai familiari delle vittime che l’hanno chiamato in causa e dall’altro viene condannato a pagare le spese di lite (stessa cifra) in favore degli eredi del progettista. Nel frattempo il Comune deposita il già annunciato appello per non pagare i 13mila euro. E manda le lettere ai familiari. La “partita doppia” riapre una ferita già ampiamente squarciata.
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