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CORONAVIRUS

L'Aquila, infermiere del 118 guarito: "Sono stato curato da amici, ho perso 12 kg"

Storia a lieto fine per operatore 64enne che ha avuto figlia, genero e positivi in casa

L'AQUILA. Ha avuto la febbre che avrebbe rivelato il contagio da covid-19 nel giorno in cui, dopo 43 anni in prima linea nel salvare vite umane, ha firmato per andare in pensione, per sconfiggere il terribile virus ci sono voluti venti giorni di ricovero nel "suo" ospedale, di cui una quindicina in terapia sub intensiva «ho avuto molta paura per me e la mia famiglia», dal quale è uscito a Pasqua: per il 64enne infermiere aquilano Augusto Castellani, storico coordinatore del 118 del San Salvatore, è stato un periodo molto duro non solo per il coronavirus, ma anche perché in seno alla sua famiglia si è consumato un piccolo focolaio per contemporanea positività della figlia, anestesista nell'ospedale di Avezzano, del piccolo nipote, e del genero, oncologo nell'ospedale di Teramo, dove ha contratto il virus riportandolo a casa.

È una storia a lieto fine quella che racconta all'Ansa commuovendosi l'operatore sanitario che sta passando la convalescenza, isolato, in un appartamento all'Aquila che si trova di fronte alla sua casa più grande, da dove può vedere, a debita distanza, sua figlia e suo nipote «che sono guariti senza sintomi»: sapendo che anche il genero, isolato in un altro stabile nel capoluogo regionale, «sta bene, attende i tamponi negativi per riprendere l'attivita». Gli unici a non ammalarsi sono stati la moglie, infermiera strumentista in pensione, «si è salvata perché ha usato da subito la prevenzione» e l'altro figlio che vive e lavora a Milano come dirigente di un'azienda privata.

«La malattia è brutta, per chi se la vive solo con la febbre assomiglia ad una influenza pesante, se vira un pò diventa preoccupante, è determinante la questione tempo, naturalmente insieme a strutture ed operatori all'altezza. Spero che si facciano le scelte giuste con i fondi in arrivò - spiega -. Io l'ho vissuta sulla pelle, potevo arrivare in sub intensiva due giorni, ma non c'erano posti letto. Ho perso circa 12 chili, sono ancora debole, ho dolori muscolari, ma con il tempo mi riprenderò». «Non ho avuto una forma severa, ma intermedia - continua -, non sono stato mai attaccato a respiratori invasivi ma ho avuto paura perché la malattia può virare improvvisamente al peggio. È stato importante vedere facce amiche perché con chi mi ha curato ho lavorato per tanti anni. Mentre ero lì ero ancora più preoccupato perché non potevo aiutare la mia famiglia e il mio nipotino, ed inoltre avevo il pensiero di mio figlio a Milano: lo avevo pregato di non tornare e per non essere accusato di essere untore, ma mi sentivo morire al pensiero se gli fosse successo qualcosa a Milano, al centro della pandemia - conclude -. Non me lo sarei perdonato». (Ansa)