La città fu messa a ferro e fuoco. Ci furono feriti e arresti<BR>

La battaglia per il capoluogo che si scatenò nel febbraio 1971

 L'AQUILA. Risalgono a oltre quarant'anni fa i moti che sconvolsero L'Aquila per la difesa del capoluogo, titolo che rischiò di passare a Pescara. Tre giorni di disordini, 26, 27 e 28 febbraio 1971, in cui la città fu messa a ferro e fuoco, con le sedi della Democrazia cristiana e del Partito comunista assaltate, le case dei maggiori esponenti politici devastate, una dura repressione da parte della polizia, con feriti e decine di arresti fra i manifestanti.  La protesta si scatenò dopo la lettura dello statuto nuovo di zecca (è stato sostituito nel 2007) della neonata Regione Abruzzo da parte del primo presidente, Emilio Mattucci.  Un testo di legge messo a punto e approvato dopo frenetiche consultazioni che duravano da mesi, in un clima da quasi guerra civile. Si arrivò alla fine a un compromesso. Quello cioè di lasciare all'Aquila, la città nata nel 1254 carica di storia e cultura, il titolo di capoluogo, e di dare a Pescara le sedi di alcuni assessorati regionali importanti.  Il compromesso, o la spartizione come venne definita, fu visto nel capoluogo come una mezza sconfitta e in riva all'Adriatico come una mezza vittoria: insomma, invece di accontentare, scontentò un po' tutti. Di lì la sommossa.

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