Quando per arginare il colera furono murati gli ingressi
È secolare la storia delle epidemie che hanno afflitto la nostra città. Già nel 1764, a causa di un lunghissimo periodo di siccità e del conseguente scarsissimo raccolto di grano, una terribile peste...
È secolare la storia delle epidemie che hanno afflitto la nostra città. Già nel 1764, a causa di un lunghissimo periodo di siccità e del conseguente scarsissimo raccolto di grano, una terribile peste flagellò lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli: Avezzano, come tutti gli altri paesi e città, fu duramente prostrata.
Nel 1836 il Decurionato (equivalente della odierna giunta municipale) respinse la richiesta di un gruppo di cittadini che invocavano la demolizione della cinta muraria, poiché ritenuta un ostacolo alla fuoriuscita dei liquami provenienti dagli scarichi a cielo aperto.
Nel 1837, come ricordava Tommaso Brogi in “Il Santuario ed il Castello di Pietraquaria nella Marsica”, il colera aveva invaso l’Italia seminando morte ovunque: gli avezzanesi implorarono la Madonna di Pietraquaria e la città, a differenza dei paesi circonvicini, fu salva nonostante la numerosa presenza di popolo per i mercati settimanali ma anche perché Avezzano, essendo Capoluogo di distretto, era molto frequentata. L’anno seguente si organizzò una grande festa per il ringraziamento e per l’Incoronazione della Madonna.
Il colera del 1843, il più insidioso, è da addebitare sicuramente alla mancanza di igiene: le varie amministrazioni comunali, da tempo immemorabile, si erano spesso interessate alla insostenibile situazione igienico-sanitaria della città sempre più precaria poiché, tra l’altro, v’era il grave problema della pulizia delle “trascenne”, strette intercapedini poste tra due fabbricati, adibite al passaggio di persone, di animali o di condotti fognari a cielo aperto ove quasi tutti, ma specialmente coloro che avevano finestre che vi si affacciavano, buttavano il contenuto dei pitali, il letame e gli avanzi della cucina che non erano suscettibili di alcuna altra utilizzazione. Da sottolineare che ogni anno la giunta municipale provvedeva alla loro ripulitura e vendeva all’asta i prodotti della pubblica spazzatura: con il ricavato si imbrecciavano le strade, alcune delle quali molto polverose.
Il catalogo della mostra documentaria “L’altra Avezzano” del 1998 ricorda come la commissione sanitaria adottò misure cautelative necessarie per impedire l’ingresso in città di chiunque potesse essere portatore del contagio: per questo, dunque, stabilì di murare tutti gli ingressi dell’abitato, «compresa Porta San Rocco e che venisse eseguito lo sbarramento con tavolati in legno di Porta San Bartolomeo e dell’uscita sull’Aia del Vicolo Mattei. L’unica rimasta aperta, Porta San Francesco, doveva essere controllata da un corpo di guardia». I morti per la gravissima epidemia, comunque, furono circa trecento: per ricordarli fu edificata la chiesa ancora esistente lungo la strada Provinciale che da Avezzano porta a Luco dei Marsi, prima del vecchio cimitero. Tale chiesa è citata anche da Tommaso Brogi in “Memorie di Vico e della sua chiesa di Santa Maria nella Marsica”. Nel 1949, poco più di cento anni dopo, per iniziativa del sindaco Antonio Iatosti, furono realizzati opportuni lavori di ricostruzione della chiesetta, già distrutta dal terremoto: all’interno dell’edificio fu murata una lapide che ricordava e ricorda ancora l’infausto avvenimento. Dovremmo parlare anche della Spagnola (1918) e dell’Asiatica (1957) ma il discorso sarebbe troppo lungo. Di certo, Avezzano ce l’ha sempre fatta.
(* storico)
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