Il parroco accusato di aver provocato un incidente sotto l’effetto della cocaina: sospeso, ora si appella al vescovo

Rivisondoli. Il sacerdote scrive al vescovo Michele Fusco e chiede di non essere abbandonato: «Mi sono rifugiato nello studio e nella preghiera»
RIVISONDOLI. È una lettera lunga, sofferta, scritta come un dialogo mancato tra un figlio e un padre. Don Daniel Cardenas, ex parroco di Rivisondoli, affida ai social un appello diretto al vescovo di Sulmona-Valva, Michele Fusco, proprio alla chiusura dell’Anno Santo in diocesi. Un testo che nasce da un senso di abbandono e che riporta al centro non soltanto una vicenda personale, ma anche una frattura umana e pastorale che il sacerdote dice di vivere ormai da mesi. La lettera arriva mentre sul piano giudiziario la posizione del parroco resta delicata. La Procura ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per il sacerdote colombiano, accusato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. L’inchiesta prende le mosse dall’incidente avvenuto lo scorso anno sulla statale 17, tra Sulmona e Pratola Peligna, quando l’auto guidata da don Daniel si schiantò contro il guardrail. Gli accertamenti successivi evidenziarono la positività alla cocaina, circostanza che portò rapidamente il caso sulle cronache nazionali. Pochi giorni dopo l’episodio, il vescovo Fusco dispose la sospensione del sacerdote dall’esercizio del ministero, misura che è tuttora in vigore e che ha comportato anche il trasferimento da Rivisondoli a Roseto degli Abruzzi. Don Daniel, assistito dall’avvocato Gerardo Marocco, ha sempre respinto l’accusa di essersi messo alla guida in stato di alterazione. La difesa sostiene che l’eventuale assunzione della sostanza sarebbe avvenuta per errore e che gli esami medici non dimostrerebbero in modo certo lo stato di alterazione al momento dell’incidente. È in questo contesto che s’inserisce la lettera aperta, rivolta direttamente al vescovo e carica di domande senza risposta. Don Daniel parla di «tentativi personali e mai ricambiati» di cercare un contatto, di «un silenzio» che definisce difficile da comprendere soprattutto in un anno giubilare dedicato alla speranza. «Ho accettato il trasferimento per obbedienza, con l’intento di spegnere i riflettori mediatici e dedicarmi alla preghiera, alla penitenza, allo studio e al volontariato». Un percorso che avrebbe «rafforzato il mio ministero», scrive il sacerdote, che non nasconde lo sconforto. «Come si può amare i figli sacerdoti che si sentono perseguitati, calunniati, esiliati, senza pronunciare una parola?», si chiede il prete ribadendo il suo amore per la Chiesa.

