Il Black Power di Minervini in corsa per l’Italia

3 Settembre 2018

La reazione al razzismo nel film-documentario “Che fare quando il mondo è in fiamme?” ambientato in Louisiana

VENEZIA. «We want Justice, Now! We want justice: Now! We want justice: Now!». E ancora, scandito ad alta voce come un mantra, lo slogan: «Black Power! Black Power! Black Power!». Questi i due tormentoni che colpiscono di più in “Che fare quando il mondo è in fiamme?” (What You Gonna Do When the World's on Fire?), documentario italiano di Roberto Minervini in corsa per il Leone d'oro in questa 75esima edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. A dire queste frasi uno sparuto e motivato gruppo di donne e uomini dei New Black Panthers Party for Self-Defense che, a pugno chiuso, pattugliano le strade di Baton Rouge (Louisiana) capeggiate dalla tonica responsabile nazionale: Christa Mohammed.
Questa è sola una della parti della riflessione sullo stato del razzismo in America girata da Minervini in un artistico bianco e nero nell'estate del 2017. Un momento davvero molto incandescente perché subito dopo una serie di brutali uccisioni di giovani africani (quelle di Alton Sterling e Philando Castile) da parte della polizia che allora ebbe una grande eco in tutti gli Stati Uniti.
Grande cura estetica e rigore in questo documentario-film in cui ogni personaggio racconta la sua personale battaglia. È il caso dell'affascinante Judy Hill, trascorsi di droga nel suo passato, e ora la sola volontà di sopravvivere con la sua famiglia perché il bar che gestisce è minacciato dalla crisi economica e, ancor più, dalla gentrificazione. Ronaldo e Titus sono invece due giovanissimi fratelli che sembrano usciti da un film di Pasolini e che crescono in un quartiere pieno di violenza, tra giochi di pallone e fughe nella periferia, mentre il padre è in prigione. Infine Kevin, Big Chief della tradizione indiana del Mardi Gras, alle prese con le perline colorate e gli allestimenti di questa festa che raccoglie migliaia di persone a New Orleans.
Di scena il travestimento in onore ai nativi americani fatto dalle varie tribù, se ne contano 38. Una manifestazione di orgoglio di una razza spazzata via dalla colonizzazione europea che si manifesta in maniera pacifica: una sorta di canto e ballo di combattimento, ma senza nessuno vero scontro.
Tra le scene più bizzarre del docu-film quella che vede uno sparuto gruppo di persone, poco più di una famiglia, per le strade delle Louisiana in giro con delle biciclette piene di vistosi led luminosi che rivendicano il loro diritto a non andare via, a non essere sfrattati.
«Durante le riprese a New Orleans ci hanno sparato, la polizia ha tirato dei proiettili anche verso di noi, ci siamo spaventati ma questa troupe credeva così tanto all'urgenza di raccontare il grido della comunità afro e indo americana di New Orleans che abbiamo continuato a girare», racconta Roberto Minervini, emozionandosi fino alle lacrime, presentando il film , applaudito alle proiezioni stampa. «Al di là del cinema, questa è vita, una cosa grossa», aggiunge il regista.
Rispetto ai suoi lavori precedenti («Louisiana» e «Stop the Pounding Heart»), qui il regista sembra troppo geometrico, equilibrato, qua e là incline a costruire la scena che pone dinnanzi alla macchina da presa. Resta comunque un enorme talento non solo documentario, ma soprattutto cinematografico, per la capacità di tenere l’equilibrio narrativo, la giusta distanza e la forza emotiva delle scene.
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