Al Bellaria Festival la grande avventura di D’Emilio e Paz

Il regista Scurti racconta la storia di un donchisciotte che da Pescara voleva trasformare il mondo con l’arte

di Giovanna Di Lello

È in concorso al prestigioso Bellaria Film Festival (dall’1 al 4 maggio), nella sezione Casa Rossa Art Doc, il bellissimo documentario del pescarese Germano Scurti, dal titolo "Elegia per la vita", in cui si racconta la storia di un intellettuale, Peppino D'Emilio, purtroppo oggi del tutto dimenticato, e di "Convergenze", una Community Art Center che fonda nella mitica Pescara degli anni Settanta, insieme ad Andrea Pazienza, allora poco più che adolescente, e ad altre personalità di spicco della città. Dal punto di vista formale, l'opera prima di Scurti è un piccolo gioiello basato su un intenso gioco contrappuntistico tra immagine e suono, alla cui realizzazione hanno partecipato anche Andrea Buccella per la fotografie e Gianluca Stuard, montatore tra i più bravi della nostra regione. Il film, che ha richiesto circa due anni di ricerca, ci proietta, attraverso numerose testimonianze e materiale di repertorio, nel sogno di «un donchisciotte che voleva trasformare il mondo con l'arte» e ci restituisce un'immagine di Pescara, all'epoca una città culturalmente vivacissima, di cui oggi purtroppo resta ben poco. Ne parliamo con l'autore.

Chi era Peppino D'Emilio?

«Tutti lo ricordano come una persona eccezionale. Un uomo capace di pensare all'arte come di un qualcosa in grado di trasformare un territorio, una città. Aveva un'immagine aristotelico-umanistica dell'arte. Credeva nella sua dimensione edificante, in grado di rendere più umano l'umano. Nella vita di tutti i giorni D'Emilio faceva il rappresentante ma aveva un'apertura mentale formidabile per una città di provincia. Aveva un legame forte con il linguaggio della contemporaneità».

Come nasce il progetto di "Convergenze"?

«Grazie all'interesse di D'Emilio per la ricerca e l'innovazione espressiva. Lui fonda "Convergenze" nel 1973 insieme ad artisti legati alla galleria di Cesare Manzo e docenti e studenti provenienti dal Liceo artistico di Pescara, come Andrea Pazienza, allora diciassettenne, ma anche Albano Paolinelli, Piergiorgio D'Angelo, Dino Colalongo, Armando Misticoni, Ilvi Capanna e l'imprenditore Antonio De Luca. "Convergenze" non era solo un luogo espositivo, ma la materializzazione di un'idea di trasformazione di una città fondato sulla valenza espressiva. Era un luogo delle arti animato da una comunità di creativi votati alla contemporaneità quindi alla ricerca e all'innovazione, con una capacità di coinvolgimento del mondo giovanile tipico di quegli anni. Un luogo dove si esibivano anche gruppi musicali underground come la Frazione Armata Rock di Claudio Di Carlo. È stata una valorizzazione della classe creativa».

Che rapporto ha avuto D'Emilio con Pazienza?

«È stato uno dei suoi primi mentori, insieme ai suoi insegnanti storici come Sandro Visca e Albano Paolinelli. Ha subito creduto nelle sue capacità artistiche».

All'epoca c'era un fermento culturale notevole a Pescara.

«Sì, soprattutto nel mondo delle arti figurative. Convergenze non era infatti un luogo nel deserto. C'era una quantità enorme di gallerie a Pescara rispetto al numero dei suoi abitanti. Questo era dovuto probabilmente grazie anche al grosso investimento nel campo della formazione ad opera di Giuseppe Misticoni, fondatore del liceo artistico di Pescara, all'epoca uno dei più importanti d'Italia, i cui docenti erano giovani artisti affermati».

Peppino D'Emilio ha lavorato anche in Rai a Pescara?

«Sì, come autore, dopo l'esperienza di "Convergenze", dalla metà degli anni Settanta all'inizio degli anni Ottanta, prima in radio e dopo in televisione, grazie al coinvolgimento del dirigente Gaetano Stucchi e del giornalista Franco Farias. Ha contribuito a rendere grande i primi anni della Rai regionale, con documentari e format televisivi innovativi realizzati con una libertà incredibile nei confronti del potere».

Qual è l'eredità di Peppino D'Emilio?

«Purtroppo oggi la sua esperienza è del tutto sconosciuta perché questa città si racconta in tutt'altro modo. È necessaria una politica del racconto diversa, capace di guardare al futuro e l'esperienza di "Convergenze" ne è un incoraggiamento».

E cosa rappresenta oggi?

«Un progetto di sviluppo della città che ha fatto leva sulla creatività come volano per la crescita di un territorio. Una storia esemplare rispetto ai processi di valorizzazione della cultura in grado di offrire stimoli per l'elaborazione di nuove visioni, necessarie oggi per superare un paradosso tutto italiano che si esprime nel detto "con la cultura non si mangia"».

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