Cialente: esperti riuniti chiacchierata senza spunti

24 Ottobre 2012

L’accusa del sindaco: ero preoccupatissimo, chiusi le scuole e non ebbi alcun tipo di indicazione dagli scienziati, anch’io ho creduto alla favola delle piccole scosse

L’AQUILA. La giustizia per la città invocata da Cialente anche per il dopo, intanto ha mosso un passetto per il prima. Il giorno dopo la sentenza che ha fatto rumore quasi quanto il sisma il sindaco ricorda quella riunione di «scienziati».

Sindaco, si è al passo iniziale del prima e lei già chiede giustizia per il dopo?

«Nel post-terremoto, fermo restando che tutte le cose positive che abbiamo avuto non solo le ho riconosciute ma ho anche ringraziato, da Berlusconi a Letta alla Protezione civile, c’è anche un dopo. La vicenda della ricostruzione è segnata da ritardi pesantissimi, ingiustizie e sofferenze. Io, accusato di essere uno dei motivi del fallimento perché sono litigioso, e gli aquilani incontentabili, su questo chiedo giustizia. Non processi, ma si riconosca quanto è successo».

Chi dovrebbe ricostruirla, questa storia?

«Gli aquilani sono disperati. Mi hanno messo le mani addosso due che non prendono l’assegno mensile. Disperazione. Ritardi per le case. Se errori ci sono stati, anche miei, vengano fuori e mi condanni la storia. E i giudici».

Torniamo ai 45 minuti maledetti del 31 marzo 2009.

«Io, sotto giuramento, ho detto la mia sensazione. Come entrai riuscii. Ero il sindaco e avevo vissuto tutto di quel periodo. Ero preoccupatissimo. Quando fui chiamato all’ultimo per la riunione stavo facendo un sopralluogo per due scuole che avevo deciso di chiudere e dovetti litigare coi genitori. Entrai, a riunione cominciata. L’unica cosa che mi colpì la disse Calvi: strano sisma, grande accelerazione. Ma lì si disse “sta scaricando, non è detto che non arriva”».

Insomma, tutto e niente.

«Tornai a casa e dissi: riunione inutile, che devono dire, questi? Il giorno dopo chiesi lo stato di emergenza, chiamai la Stati. Chiusi la materna di Santa Barbara. Non uscii tranquillizzato, fu una chiacchierata senza spunti».

Una chiacchierata con gente di quel calibro?

« Non c’era una base scientifica né per un sì né per un no. Uscii da lì pregando e basta. Preoccupato, sentivo su di me grande responsabilità. La notte del 5, dopo la prima scossa, sentii il questore Piritore. Chiudo la scuola un giorno. Poi? Nessuno mi diceva niente».

Il sindaco fece tutto quanto era in suo potere oppure l’occupazione di cui parlate era cominciata?

«Feci il possibile, furono commessi errori legati al clima di quei giorni, tra chi diceva “arriva” e chi “non arriva”, l’allarme a Sulmona, più scarica meglio è. In questo clima Bertolaso decide di fare una cosa che non porta a niente».

Insomma, quella sera qualcuno sbagliò?

«Abbiamo sbagliato un po’ tutti. Anche a porre domande tipo: che può succedere? Come se a me, pneumologo, arriva uno con la tosse e io, senza lastra, mica posso dirgli se gli è andata di traverso la saliva o se è tubercolosi. Il problema non è la previsione ma la messa in sicurezza».

Eppure quella notte gli aquilani si fidarono.

«Ci hanno rassicurato e abbiamo dormito. Se ci avessero detto ecco la scossa forte avremmo dormito 15 giorni in tenda e poi? Non so. Io per primo mi fidai, dando retta a mia moglie e non a mia suocera. E mi sono addormentato. Come tutti».

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