Giacomo Passeri, il pescarese condannato in Egitto a 25 anni. «Non regge più, si sta lasciando andare». Ricorso in Cassazione

La storia del 32enne condannato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Il fratello: «Non abbiamo fiducia nella giustizia egiziana. Confidiamo in una riduzione di pena»
PESCARA. Presentato il ricorso in Cassazione da parte dei familiari di Giacomo Passeri, il 32enne pescarese arrestato in Egitto il 23 agosto del 2023 e condannato, sia in primo grado che in appello, a 25 anni di carcere per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Una scelta non facile per i fratelli, di procedere in questo modo, «perché», spiega uno di loro, Marcoantonio Passeri, «non abbiamo fiducia nella giustizia egiziana. Nonostante le prove portate in aula dall’avvocato dell’Ambasciata, la pena per Giacomo è stata pesante. Ora confidiamo in una riduzione, ma abbiamo paura. Ci siamo affrettati a firmare per il ricorso, visto che i termini stanno per scadere. Spero di aver fatto la scelta giusta».
E aggiunge: «Giacomo non ce la fa più. Nelle sue ultime lettere emerge tutto il suo malessere. Si sta lasciando andare. Così come ci è stato suggerito dall’Ambasciata, abbiamo cercato di convincerlo attraverso altre lettere che questo iter giudiziario possa essere quello più opportuno da seguire». I dubbi sul da farsi sono emersi soprattutto dopo la lettera di risposta che il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha inviato al sindaco Carlo Masci più di un mese fa. «La possibilità di procedere al trasferimento della pena in Italia è subordinata, ai sensi dell’accordo tra il nostro Paese e l’Egitto, al definitivo passaggio in giudicato della sentenza di condanna». Questo il passaggio che, secondo Marcoantonio, «genera confusione sulle reali intenzioni di uno Stato italiano di fatto assente, ma pronto a inoltrare chiarimenti diplomatici, se sollecitato dalle istituzioni locali».
I familiari chiedono da sempre il rientro in Italia per il 32enne, trovato in possesso di droga nel suo ultimo giorno di vacanza in Egitto. «Hanno parlato di ovuli nella pancia, ma in realtà aveva con sé marijuana, limitata a un uso personale», dice ancora Marcoantonio. «I poliziotti lo hanno picchiato e Giacomo è stato anche costretto a firmare dei documenti, di cui non poteva comprendere di certo il contenuto, sotto minaccia. Gli hanno dato 25 anni e non sappiamo bene come sono andate realmente le cose durante le udienze. Il legale in appello ha portato delle prove a suo favore, ma nulla. Alla fine hanno confermato la condanna di primo grado».
In base a quanto chiarisce Tajani nella lettera inviata al primo cittadino, «la vicenda è stata fin da subito seguita con la massima attenzione e costanza dall’Ambasciata italiana al Cairo e quest’ultima, in stretto coordinamento con il ministero, ha mantenuto continui contatti con la famiglia e con i legali del connazionale». L’ambasciata, sempre in base a quanto precisa il ministro, avrebbe anche effettuato numerose visite consolari, «fornendo tutta la possibile assistenza al fine di migliorare le condizioni detentive del 32enne». I familiari, però, hanno paura e attendono di ricevere notizie dal giovane.
Nelle ultime lettere fatte recapitare al fratello tempo fa aveva scritto di sentirsi abbandonato e di non avere più la forza di andare avanti. L’ultimo tassello giudiziario rappresenta, ancora una volta, una speranza, per i famigliari. L’Ambasciata italiana al Cairo sta fornendo assistenza per il ricorso in Cassazione appena presentato. Oltre alla riduzione della pena, i fratelli sperano nell’effettivo rimpatrio. Sul caso si sono espressi anche il senatore Michele Fina (Pd), i deputati Nazario Pagano (Fi) e in più occasioni il deputato Marco Grimaldi (Sinistra Italiana).
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