Il bombarolo in aula confessa e si pente

18 Dicembre 2013

Di Santo: «Non sono un rivoluzionario, ho incendiato le auto e preparato un ordigno perché ho subito delle ingiustizie»

PESCARA. «Non sono un rivoluzionario né un pazzo, forse sono il fesso della contrada che lotta contro le ingiustizie sociali. Sì, mi assumo la paternità degli atti incendiari riprovevoli ma se ho agito così è stato per attirare l’attenzione della giustizia e per segnalare le lungaggini del sistema giudiziario».

Si stava preparando da tempo a parlare, Roberto Di Santo, il “bombarolo” di 58 anni originario di Roccamontepiano in carcere da quasi un anno che, ieri, ha potuto spiegare perché ha messo fuoco a varie macchine, perché ha fabbricato un ordigno piazzato in una villetta a Villanova di Cepagatti e perché per dieci giorni – e numerosi videomessaggi – si è dato alla fuga prima di essere arrestato dai carabinieri. Seduto al primo banco dell’aula 1 Di Santo, di professione impiantista, è stato interrogato dal pm Silvia Santoro che ha esordito così: «Di Santo, ha commesso gli atti incendiari che le vengono addebitati?. «Sì, me ne assumo la paternità», ha detto l’uomo accanto al suo avvocato Roberto Di Loreto, «e meriterei di essere punito ma ero esasperato da uno stato di ingiustizia che vedevo attorno: sia per il disagio che riguardava mia sorella, una cittadina senza diritto alla dimora, e sia per me, perché spesso lavoravo e non venivo pagato».

E’ stata una difesa singolare quella di ieri di Di Santo perché, contrariamente a quello che di solito accade, l’imputato non ha negato di aver commesso i reati per cui è stato arrestato spiegando invece le ragioni alla base delle tante auto incendiate e ponendo il tema, in un’aula di giustizia, del sistema giudiziario e dei suoi tempi. A tal punto che, a un tratto, il presidente del collegio Rossana Villani, replicando alla frase di Di Santo «la giustizia è il perno dell’equilibrio sociale», ha interrotto l’imputato per dirgli: «Apprezzo la sua filosofia, ma vada avanti». Di Santo ha passato in rassegna le sue gesta, dalla prima auto bruciata, quella dei vicini di casa in via Piemonte a Villanova di Cepagatti, alla macchina incendiata di fronte al tribunale di Chieti senza fare riferimento ai numerosi videomessaggi lasciati in giro ma ribadendo il concetto espresso in quei video: «L’ingiustizia». «Il percorso che ho fatto», ha detto, «era per colpire, per dare un segnale a chi non mi ha pagato e segnalare il disagio di mia sorella, di una donna che non riesce ad avere una casa per contenzioni con i vicini: una situazione che accomuna molti». Di Santo è accusato di aver incendiato una casa rurale a Ripa Teatina, quattro tra auto e scooter a Bucchianico, di aver dato alle fiamme una macchina di fronte al tribunale di Chieti in piazza San Giustino e di aver costruito una bomba piazzata a Cepagatti. Al pm che gli domandava perché dieci giorni di latitanza, l’impiantista ha risposto: «Mi sono fermato quando ho avuto paura che qualcuno potesse emularmi. La bomba che contavo di mettere a Roma? E’ in un mio scritto, se volete ve lo lascio».

L’interrogatorio di Di Santo è durato una trentina di minuti e, alla fine, l’uomo ha chiesto al presidente del collegio di poter tornare in libertà per un paio di settimane in modo da raccogliere «alcune prove». Ma il presidente Villani non ha accolto la richiesta perché, come ha detto, «valutando la gravità dei reati, la richiesta non è accoglibile». L’udienza è stata quindi rinviata al 7 gennaio alle 9.

All’uscita dall’aula, è stato il legale di Di Santo ha spiegare il pensiero dell’ex impiantista di Roccamontepiano: «Le sue dichiarazioni pongono seri problemi che vanno risolti», ha detto Di Loreto, «sono degli spunti di riflessione ma una situazione di disagio non significa ovviamente indurre persone a incendiare auto». ©RIPRODUZIONE RISERVATA