«Io, colpevole come mio figlio di omicidio...»
di MAURO TEDESCHINI M. ai, in trent’anni e più di mestiere, avevo partecipato a un incontro così emozionante e intenso. Ascoltare e vedere quelle due donne che una tragedia così grande ha finito per...
di MAURO TEDESCHINI
M. ai, in trent’anni e più di mestiere, avevo partecipato a un incontro così emozionante e intenso. Ascoltare e vedere quelle due donne che una tragedia così grande ha finito per unire, invece di separarle da un odio perenne, per un’intera mattinata ha tenuto inchiodate alla sedia, in un religioso silenzio, decine e decine di giovani. Un piccolo grande miracolo della fede e della disperata ricerca di dare un senso a un delitto che, sulle prime, una spiegazione proprio sembrava non averla, se non nella follia di una gioventù bruciata dalla cultura dello sballo.
E il senso è tutto racchiuso nella parole di Claudia, la vedova del carabiniere, quando dice che adesso capisce che Antonio è morto per salvare quel povero assassino: «Ero stata a Medijugore poche settimane prima di quel 25 aprile del 2011 e aveva avuto un presentimento che qualcosa di forte sarebbe accaduto alla mia famiglia. Anche Antonio aveva da tempo la sensazione che sarebbe morto giovane. I mesi più duri sono stati quelli in cui mio marito era in coma vegetativo, sentirsi vedova davanti a un uomo apparentemente ancora vivo». La svolta è avvenuta al processo, dopo che a una prima udienza Claudia aveva gridato a Matteo, l’autore del pestaggio mortale del marito, tutta la sua rabbia. Qualcuno le aveva fatto notare che l’aveva chiamato proprio così, «Matteo», senza mai usare la parola «assassino». E da lì è iniziato un percorso fatto di sguardi sempre più compassionevoli, arricchito dagli incontri, chiesti e accordati, con Irene, la mamma del ragazzo. Fino all’incontro in carcere, voluto da Claudia, dopo che Matteo era stato condannato all’ergastolo: «Mi sembrava una pena enorme per un ragazzo così giovane, nessuno mi avrebbe restituito mio marito, e andai a Milano per incontrarlo. Fu lui a rassicurarmi con un sorriso, dicendo che era la pena che si era meritato. Ci siamo abbracciati e abbiamo pianto insieme, poi gli ho messo tra le mani quel rosario che mi ero portato da Medjiugore. E in quel momento ho capito che Antonio non era morto invano: lui che cercava sempre di correggere i giovani, non certo per il gusto di punirli, aveva salvato la vita a quel ragazzo. E spero che il suo sacrificio, tutto il dolore che questa storia ha causato, possa essere d’esempio per tanti giovani che devono trovare la forza di fermarsi in tempo».
Oggi Matteo, con l’assistenza di don Mazzi e della Comunità Exodus, frequenta l’università, indirizzo Scienze dell’Educazione. La mamma dice che vuole diventare proprio un educatore, la professione che costituirebbe un ponte ideale tra il suo passato e il suo futuro. La sua è stata una famiglia difficile: i genitori separati quando lui aveva tre anni, con un divorzio difficile, sfociato in un’infinità di contrasti. Irene dice che se ci fosse il reato di omicidio morale, lei sarebbe da condannare, assieme al figlio: errori, assenze, silenzi. Ma Claudia l’abbraccia e dice che nessuno deve giudicare, ma solo aiutare. Anche a dare un futuro a chi ha ucciso il padre di suo figlio.
©RIPRODUZIONE RISERVATA