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2 Maggio 2013

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Era una bella festa, anche se non ne capivo il senso. A dire il vero di poche cose capivo il senso, di molte cose sentivo solo il rumore. Mentre eravamo stesi sull'erba bagnata a bere via il fastidio giovanile mi resi conto che il rumore era già diventato dolore. Evidentemente avevo bevuto via troppo. Stavo male, forse era meglio cercare un posto, un posto da solo. Rassicurai il mio amico e mi allontanai da quel mucchio di persone. Iniziai a correre, sicuramente non bene come quella volta che vinsi la corsa campestre. Che bella sensazione quella di arrivare. Ora correvo per liberarmi da quelle casse di metallo pesante, davanti alle quali eravamo tutti disperati ed euforici a saltellare come scimmie in una gabbia di vibrazioni al gusto di acido. Più mi allontanavo più diminuiva il vibrare dei bassi nello stomaco.

Arrivai davanti a un cadavere urbano in dimenticata costruzione, che se ne stava lì maestoso a guardare le nostre danze rituali, e i miei dolori vitali. Salii per le scale polverose, sentivo ancora un peso enorme nel ventre. Quel palazzo non aveva i muri esterni perciò era la luna a guidarmi con la sua luce. Maggiore era il numero di scalini affrontati, maggiore era la quantità di fango e polvere accumulata sotto le scarpe. Giunsi all'ultimo piano, l'ultima altezza accessibile. I muri erano mattoni abbracciati l'uno all'altro, spaventati dalla debolezza delle fondamenta si tenevano stretti stretti. Davanti avevo il muro mancante, il vuoto, una parete dipinta di luci notturne lontane; lampioni sorvegliavano le strade, fari inesorabili striscianti sull'asfalto, finestre, case, una chiesa.

Era silenzio.

Silenzio che mi entrava nelle tempie, che schiacciava lo spleen, che mi prendeva la gola e spargeva veleno sulla bocca dello stomaco. Ecco il peso, sempre più insopportabile. Con una serie di contrazioni uscì tutto fuori dalla mia bocca; rimasi inorridito. Assieme alle birre e alla cena di quella sera erano sparsi per terra, tra la polvere e i chiodi, un rosario, due spicci e la coda della lucertola che avevo ucciso da bambino. Realizzai che era impossibile che fosse uscito tutto dal mio stomaco, pensai che mi avevano sciolto un acido nella birra. Non poteva essere reale. La gola mi bruciò tremendamente, e non per i succhi che accarezzavano le pareti della mia faringe. Notai che dalla mia bocca penzolava uno spago colorato, tossendo sputai la medaglia che vinsi anni prima, sorridente al traguardo. Sputai la vincita, sputai il traguardo.

Esausto mi appoggiai al muro che avevo di lato, implorando i mattoni di amarsi ancora un po', e sorreggere il mio peso, morto. Un ultimo faticoso conato donò al cemento sotto i miei piedi un essere minuscolo, un feto, dalla testa esageratamente grande e sproporzionata rispetto al corpo. Disgustato mi abbassai per guardarlo meglio, lo presi e mi rialzai tenendolo in braccio, il vento ci accolse, piansi. Era tutto finito. Guardai ancora una volta al dipinto mobile di luci che avevo davanti.

Era silenzio.

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