il racconto

La scossa, il terrore, l'angoscia: Amatrice come L'Aquila

Tra Lazio, Abruzzo e Marche alle 3.36 torna l'incubo del 2009: ecco il resoconto di un viaggio col dolore nell'anima dopo la notte tragica che ha spazzato via un paese

L’ora maledetta è scoccata di nuovo. Ha tuonato dalle viscere della terra e ha chiesto alla vita la sua percentuale di morte. Ieri mattina: le 3.36. Il sei aprile 2009: le 3.32 . È il ladro che colpisce nel cuore della notte. Il fuoco che brucia le pagine di storia. L’urlo spezzato dalla polvere delle macerie. Il pianto di chi è sopravvissuto per caso e cerca, cerca, cerca e non trova più.

Un attimo dopo la scossa, quello che fa paura è il silenzio. Il silenzio seguì quei secondi in cui mio figlio Domenico dal gorgo infernale fece partire quell’ultimo grido: papà, papà. Papà era lì ma impotente come un fuscello in mezzo al mare in tempesta. Quella notte illuminata dalla luna ingoiò anche mia figlia Maria Paola e mio padre Domenico. Il passato e il futuro si infilarono in un attimo nel tunnel senza uscita e, ai vivi per caso, inflissero la condanna di vedere di nuovo l’alba.

L’ora maledetta è scoccata di nuovo. Le 3.36 hanno segnato il destino di interi paesi. Capisci subito che quella non è la “solita” scossa. È forte. Il letto trema, la casa di cemento armato dondola come fosse finita in mezzo all’oceano. Sono sveglio come lo ero anche la notte dell’Aquila. Mi alzo in fretta e con me mia moglie Dina. Pare il remake di un brutto film. Stavolta non ho camerette in cui andare a cercare i miei ragazzi. Sento mia madre, sta bene. Sette anni fa ci vollero quattro ore per tirarla fuori dalle macerie. Accendo la tv e il computer. C’è voglia di sapere e capire. Le prime telefonate: tanta paura, gente in strada; ma non sembra l’apocalisse. Poi ecco che qualcuno parla dei monti Reatini. Nei mesi che seguirono il terremoto dell’Aquila in tanti definirono quell’area “a forte rischio”, lo diceva - e lo dice - la tragica storia dei terremoti. Vengono in mente Montereale, Campotosto, Amatrice. Mi sento con i colleghi del Centro, stanno partendo.

Vengo pure io. Mi avvio sulla statale 17. Sono da poco passate le 5 del mattino eppure c’è movimento. Quando arrivo all’Aquila, in viale della Croce Rossa c’è traffico come nelle ore di punta. Gente vestita alla meglio, come scappata da un incubo, si affanna davanti a un bar per prendere un caffè o un cappuccino. Le facce sono sconvolte. È successo di nuovo. Come allora. E la paura riaffiora, prende allo stomaco, ti strappa la lacrima che pensavi di aver asciugato per sempre. Sfatata la favola di quelli che ti danno di gomito e dicono: adesso il terremoto all’Aquila tornerà fra trecento anni. No, è tornato, e tornerà. Mi vengono alla mente le parole di un amico professore della facoltà di ingegneria dell’Università dell’Aquila incontrato per caso due giorni fa: “Sono amareggiato, noi dovremmo ricostruire pensando al prossimo terremoto e invece stiamo mettendo solo delle pezze”. Terribile. Ma forse vero. Usciamo dall’Aquila e il pensiero è ancora a Montereale e Campotosto. L’amico Nello è a Cabbia di Montereale, lo chiamo e mi rassicura: tanta paura ma nessun danno. A Campotosto c’è Assunta: qui non è successo nulla -mi dice - ma ho tanti conoscenti ad Amatrice, e nessuno risponde al telefono. È chiaro: è lì l’apocalisse. L’ora maledetta ha cambiato obiettivo ma non ha rinunciato al suo bottino di morte. Facciamo la via Salaria, è un po’ più lunga ma non dovrebbero esserci interruzioni o blocchi stradali. Avvicinandoci ad Amatrice cominciamo a scorgere persone, fuori casa, sedute su una panchina - con una coperta sulle spalle - o dentro un’auto a cercare un sonno che non arriverà più. Dalla radio sentiamo che bisogna parcheggiare a un chilometro dal paese. Poi si va a piedi. Salgo con un po’ di affanno, manca un quarto d’ora alle 7. Alla fine di una curva la tragedia spalanca le sue fauci. C’è l'ospedale. L’ingresso del pronto soccorso è vuoto. Si sentono voci dal piazzale. In quello spazio di poche centinaia di metri quadrati ci sono i pazienti: qualcuno ha sangue sulla testa - i primi feriti - altri sono anziani strappati all’improvviso dai loro reparti. L’ospedale sembra un castello di carte pronto a crollare alla prima folata di vento. A quel punto mi viene voglia di gridare: ma come, dopo quello che è successo all’Aquila, in una zona ad altissimo rischio sismico ci sono ancora ospedali fatti di cartapesta. Non lo faccio, sarebbero altre parole che si perderebbero nel vento dove dominano le chiacchiere dei politici già pronti a recitare frasi fatte a favore di telecamera. A fianco all’ospedale c’è una chiesa, il campanile non è venuto giù ma è come un pezzo di formaggio rosicchiato da un topolino. Un ultimo tornante e senti un pugno nello stomaco. Amatrice, con la sua storia millenaria, le sue chiese, le sue torri, le sue tradizioni si è sciolta come neve al sole. Semplicemente non c’è più: come la mia Onna nel 2009. Ferita a morte: come L’Aquila delle 3.32. Saliamo per corso Umberto. C’è quello strano silenzio di chi è costretto a guardare nel vuoto. Il terremoto ti toglie le forze, ti fa maledire chi hai pregato fino al giorno prima, ti svuota l’anima, ti uccide due volte perché ti lascia vivo. Guardo quel mondo scomparso. Mi colpiscono l’affanno e la generosità dei soccorritori e rivedo me stesso nei volti spauriti degli sfollati. Quel mattino ero solo e disperato - seduto sotto il tiglio dove giocavo con i miei ragazzi - stupito per il fatto che il sole era sorto di nuovo, che gli uccelli cinguettavano, che le nuvole vagavano nel cielo drappeggiato d’azzurro. Mi sembrava fosse un’altra cattiveria della natura, prigioniero com’ero di un dolore che aveva buttato la chiave della mia anima. Vedo passare una barella, non frugo sotto quel panno di morte, il collega che è con me dice: era una ragazzina di non più di 13 anni. Un flash, sette anni fa: la barella, la stessa, o forse solo uguale, sulla quale fu portata via la mia Maria Paola. Non volli vedere i lineamenti disfatti di mia figlia quasi sedicenne.

Mentre la polvere comincia a impastarsi con la saliva penso ai genitori di quella poco più che bambina che nel suo letto sognava il futuro, spezzato dalla furia della natura e dall’incoscienza degli uomini. La strada parallela a corso Umberto è viale Francesco Grifoni. In alto c'è uno slargo dove ci sono (o meglio c’erano) le sedi di quasi tutte le associazioni del paese. Le case di fronte sono ridotte in pezzi. Fra i soccorritori c’è agitazione. Stanno cercando un bimbo di non più di quattro anni. In basso ci sono i fratellini più grandi che quando capiscono che non c’è più nulla da fare scoppiano a piangere e nessuno riesce a calmarli. No, tutto questo non è giusto. Non si può morire a quattro anni, non deve piangere di dolore chi è appena sbocciato alla vita. È quasi mezzogiorno. Decido di tornare all’Aquila. Sul filo rosso dell’ora maledetta.

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