La storia di Mohamed, accolto dai pescaresi ma morto a soli 19 anni

Era arrivato nel 2015 in gommone dalla Costa d’Avorio Ai funerali musulmani e cattolici hanno pianto insieme

PESCARA. Questa è la storia di un ragazzo in fuga dalla disperazione e di una Pescara che sa accogliere e rispettare senza clamori e proclami. Questa è una storia d’amore. Così l’hanno intitolata, ascoltandola durante “il fuoco di bivacco”, gli scout del gruppo Pescara 3.

Il protagonista si chiamava Mohamed Kante Kante, ed è morto qualche giorno fa per una leucemia: è arrivato solo e se n’è andato lasciando una grande famiglia allargata di cristiani e musulmani incredibilmente uniti intorno a lui. Mohamed aveva 19 anni e veniva dalla Costa D’Avorio, terzo di cinque figli. Quando aveva 13 anni il suo papà si è ammalato ed è morto. Nella cultura del suo villaggio si usa che il fratello del padre deceduto prenda possesso della sua famiglia e delle sue cose. Ma lo zio non era una brava persona e la vedova non se l'è sentita di sposarlo ed è scappata, così i due fratelli più grandi.

La fuga. «Mio zio ha venduto la nostra casa, mi ha preso con sé insieme alle mie due sorelline piccole e ci ha portati in Guinea con la promessa di farci studiare e poi riportarci dalla mamma. Ma non è stato così: mio zio ci maltrattava, ci ha resi quasi schiavi», raccontava Mohamed intorno a quel fuoco. A quel punto lui fugge per ritornare dalla mamma, ma a causa del virus Ebola la frontiera della Costa d'Avorio è chiusa, per cui dall'età di 13 anni si ritrova a vagare per l'Africa in cerca della madre. Attraversa un deserto lungo 4000 chilometri su quelle jeep stracariche di gente che vediamo in tv. A volte le jeep scaricano e abbandonano le persone. A lui capita questa sorte. «Sono sopravvissuto mangiando datteri e procurandomi legna per la notte (che nel deserto è fredda)». E arriva in Libia. «Sono stato abbandonato nella capitale. Per caso sono entrato in un negozio e il padrone ha avuto pietà di me. Era un signore anziano e solo. Mi ha preso nella sua casa per un anno e mezzo. Mi faceva lavorare come muratore per ricostruire la sua casa bombardata e alla fine mi ha messo su un gommone così che potessi arrivare in Europa e studiare».

Il viaggio. Ma il gommone si ferma in alto mare. A bordo sono in cento, alcuni svengono e si sentono male. «Siamo rimasti fermi tra le onde tutta una notte, finché una nave italiana ci ha visti e ci ha portati a Lampedusa», le parole di Mohamed intorno a quel fuoco. E da Lampedusa per tappe arriva a Pescara «dove lo abbiamo conosciuto perché andavamo a fare volontariato nel centro di accoglienza», ricordano gli scout. Sono passati 4 anni dall’inizio del viaggio della speranza. Il centro di accoglienza immigrati è l’Eta Beta, in via Tirino. Quasi subito dopo il suo arrivo, un anno e mezzo fa circa, si scopre che Mohamed è malato. Un linfoma.

La malattia. Ed è a questo punto della storia che il ragazzo conosce don Massimo Di Lullo, parroco della chiesa di San Giovanni Battista e San Benedetto Abate, e il gruppo scout della forania Colli. E comincia a farsi voler bene. La malattia lo costringe a ricoveri in ospedale. In corsia Mohamed conosce Graziella e Franco Di Biase: lei fa la maestra e nei raparti va a leggere ai piccoli malati e ad aiutarli a mangiare e nelle varie necessità, lui porta sorrisi ai bambini in cura. Insomma due persone di gran cuore. E a cuore prendono Mohamed, diventano amici: la coppia a tre figli, Luca, Francesco e Federica, più o meno coetanei del ragazzo. «Quando è stato dimesso dopo il primo ciclo di chemio, per non affidarsi a medici di altre città», racconta don Massimo, «ha scelto di uscire dal programma di soggiorno umanitario per rifugiati malati, che dura 2 anni, rinunciando così ai 35 euro al mese che avrebbero dato al centro per lui. Ci tengo a ricordare», sottolinea il prete, «che ai profughi non viene dato direttamente quel denaro, ma a volte 1 o 2 euro al giorno». Siamo esattamente a un anno fa. È quasi Natale. E anche Mohamed trova la sua capanna.

La nuova famiglia. «Noi abbiamo l’usanza di avere con noi per la Vigilia un senzatetto», racconta Franco, «così è venuto Mohamed a mangiare e da quella sera ho avuto uno sguardo diverso: sapendo che c’era una mamma in pena per lui da qualche parte abbiamo deciso di fare quello che sua madre avrebbe fatto per lui». Curare i bisogni del corpo sofferente ma anche dello spirito. «La mamma lo avrebbe educato da musulmano e noi abbiamo fatto lo stesso. Siamo cattolici e rispettosi di tutte le religioni. E Mohamed aveva una spiritualità fortissima, pregava molto, aiutava il prossimo, era generoso. Scherzavamo su quello che poteva mangiare lui per il Ramadan e noi in Quaresima». «Una volta che il male sembrava stesse per portarlo via», ricorda don Massimo, «abbiamo chiamato l’imam qui a Pescara, Mustafà Batzami, per pregare insieme». Tra un ricovero e l’altro Mohamed stringe amicizie profonde con i ragazzi di casa Di Biase e i loro amici, va a ballare, gioca su Facebook, prega. «Il suo dolore era non riuscire a perdonare la madre di averlo abbandonato», osserva Franco. «Ne parlava con mia moglie, con lei aveva un rapporto profondo, si capivano con uno sguardo».

La mamma. Impegnandosi in un giro di telefonate intercontinentali alla fine parroco e amici riescono a farlo parlare con la mamma: «Prima le parlò con rabbia, poi con dolcezza le disse di andare a riprendere le sue sorelle», ricorda Franco. «Stava male e diceva: non capisco Dio cosa vuole da me, prima sto bene poi male, se vuole che vada con lui io sono pronto. Aveva una fede adulta, per un ragazzo di 19 anni». È morto all’ospedale San Gerardo di Monza, dove era ricoverato per una cura sperimentale, martedì 30 novembre, circondato dall’affetto della sua grande famiglia. Ha avuto un doppio funerale: nella parrocchia che amava, presenti anche gli amici musulmani, e in moschea, presenti gli amici cristiani. Una grande folla unita dall’affetto per un ragazzo che coltivava la speranza.

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