Le mani della mafia sui metanodotti, concessioni sospette anche in Abruzzo

Sequestro da 48 milioni di euro della Guardia di finanza di Palermo. Indagini su una società di metanizzazione che ha ottenuto negli anni ’80 e ’90 72 concessioni in comuni siciliani e della nostra regione

PESCARA. Le mani dei boss sugli appalti per la metanizzazione in Sicilia e in Abruzzo. Un ingente patrimonio costituito da società, attività commerciali, immobili di pregio e disponibilità finanziarie, del valore complessivo di circa 48 milioni di euro, è stato sequestrato dalla guardia di finanza di Palermo in esecuzione di un provvedimento emesso dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo su proposta della Procura della Repubblica.

Il sequestro è il risultato di un’indagine del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Palermo, coordinata dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dal sostituto Dario Scaletta, che ha fatto emergere le infiltrazioni di ’Cosa Nostra e dei suoi leader storici - fra cui Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro - negli affari delle società appartenenti ad un gruppo imprenditoriale che ha curato, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, la metanizzazione di diverse aree del territorio siciliano. Le indagini si sono concentrate in primo luogo sulla genesi del gruppo, costituito negli anni ’80 da un dipendente pubblico, grazie all’investimento di ingenti risorse finanziarie di dubbia provenienza, sviluppatosi grazie alla protezione della mafia e ad appoggi politici - in particolare dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino - arrivando ad ottenere ben 72 concessioni per la metanizzazione di comuni della Sicilia e dell’ Abruzzo, i cui lavori di realizzazione sono stati in più occasioni affidati in sub appalto ad imprese direttamente riconducibili a soggetti con precedenti per mafia e comunque vicini alla criminalità organizzata.

La società di metanizzazione al centro dell’operazione della Guardia di finanza è la Gas spa. Le vicende societarie e le attività della Gas sono state ricostruite nell’ambito di un altro filone di indagine che l’aveva individuata come lo snodo di un giro di tangenti a politici siciliani. La Gas è stata costituita negli anni Ottanta da un funzionario regionale, Ezio Brancato, morto nel 2000. Il provvedimento di sequestro colpisce i suoi eredi: le figlie Monia e Antonella Brancato, rispettivamente di 34 e 31 anni, e la moglie Maria D’Anna, di 67. Socio occulto dell’imprenditore sarebbe stato Vito Ciancimino mentre le quote azionarie erano divise tra lo stesso Brancato e il tributarista Giovanni Lapis, arrestato e condannato per avere riciclato nel gruppo parte del «tesoro» di Ciancimino.

Utilizzando appoggi politici, la società si è sviluppata fino a ottenere 72 concessioni per la metanizzazione di comuni della Sicilia e dell’Abruzzo. Tra il 2003 e il 2004 l’azienda è stata ceduta a una holding spagnola, la Gas natural, per 115 milioni di euro. L’operazione sarebbe stata favorita, come ha rivelato Massimo Ciancimino subentrato al padre, dalla distribuzione di tangenti a politici siciliani. Dall’inchiesta sono affiorati i nomi degli ex ministri Saverio Romano e Carlo Vizzini e dell’ex assessore regionale Salvatore Cintola (poi morto). La Procura di Palermo ha ipotizzato il pagamento di tangenti legate alla concessione di appalti che avevano fatto crescere il valore della società Gas. Altre sarebbero state pagate come «contropartita» di un provvedimento legislativo: la legge 350 del 24 dicembre 2003 che previde per le aziende del gas un abbattimento dell’Iva e contributi per i trattamenti pensionistici. I politici chiamati in causa hanno sempre negato di avere preso soldi in cambio di «favori». E alla fine le loro posizioni sono state archiviate. È andata invece avanti l’indagine sui legami tra le società del gruppo e personaggi di mafia o comunque vicini a Cosa nostra. E da questo filone è scaturito ora il sequestro dei beni.

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