Nessuna mafia del pesce, assolti i Savignano

Accuse cadute dopo 14 anni, non c'erano clan a gestire il commercio di tonno e vongole

PESCARA. E alla fine si scopre che non era mafia. E neppure qualcos'altro di illegale, a quanto pare. Eppure, quattordici anni fa, l'inchiesta che sconvolse la marineria pescarese e che trascinò in un vortice giudiziario anche personaggi in vista della città, provocò rumore assai, tra sequestri e interrogatori. Sembrava che fosse stato sollevato il velo su una criminalità organizzata di stampo locale e di alto livello, con tanto di legami politici. Abbiamo atteso fino al 2011, mentre le prescrizioni erodevano i capi d'accusa meno gravi, per scoprire che non era esattamente così.

E che i fratelli Bruno e Tonino Savignano non avevano imposto con la forza e l'intimidazione il proprio monopolio nel commercio della pesca delle vongole e del tonno.

Ce lo dice, in attesa di leggerne le motivazioni, la sentenza con cui il tribunale distrettuale due sere fa ha liquidato con un'assoluzione generale quella che nel 1997 si annunciava come un'inchiesta con numeri da maxi processo e che, alla resa dei conti, si è sgonfiata come un pallone bucato.

Una sterzata decisa, in verità, l'aveva già data il gup Carlo Tatozzi. Roba di dieci anni fa: 11 a giudizio dei 29 indagati di partenza, prosciolti politici, professionisti, funzionari pubblici e pescatori. L'ipotesi di un racket del porto era rimasta in piedi, seppur con meno appeal.

Lunedì sera, il cerchio si è chiuso. Il collegio presieduto da Marco Bortone e completato da Antonella Di Carlo e Giuseppina Paolitto ha utilizzato una formula, «perché il fatto non sussiste», che non lascia dubbi, perché azzera la peggiore delle accuse - l'associazione per delinquere di stampo mafioso - e dunque certifica la piena innocenza, non solo dei Savignano, difesi dagli avvocati Marco Di Giulio e Giancarlo De Marco, ma anche di altri 6 imputati, commercianti, imprenditori o ex dipendenti di aziende dei Savignano: Maurizio Di Francesco, Alba Roscini, Aldo Finocchiaro, Gabriele Chiavaroli, Nunzio Manna e Francesco Campanella, assistiti dagli avvocati Sandro Campobassi, Nicola Giambuzzi e Gianluigi Tucci.

Era partito come un procedimento per associazione semplice, poi era subentrata la componente mafiosa che aveva spinto l'inchiesta verso la procura distrettuale dell'Aquila. Allora, passato ormai remoto, si era parlato di pescatori che si lamentavano, che avevano paura. Le barche affondate, le macchine bruciate erano state ricollegate ai due fratelli, oggi impegnati in tutt'altra attività imprenditoriale. La sentenza («non hanno commesso il fatto») racconta altro.

Al momento di tirare le somme di mafia e racket, nessuno ha confermato in aula le presunte minacce e i 9 anni richiesti dal pm Sgambati per i fratelli Savignano (dai 2 ai 4 anni per gli altri), non hanno trovato sostegno. Il magistrato, che aveva sottolineato la permanenza del vincolo mafioso e sollecitato anche l'applicazione immediata di misure cautelari in caso di condanna, ha parlato apertamente di omertà tra i pescatori, che ai giudici hanno testimoniato che il problema fosse il prezzo del tonno e delle vongole, e che quando erano arrivati i Savignano acquistavano tutto il pescato e pagavano ogni settimana. Allora, si diceva che il prezzo fosse imposto e comunque inferiore a quello di mercato, mentre il processo avrebbe dimostrato che era la media dei prezzi che usciva dall'asta di Giulianova e che i pagamenti non erano frutto di dicktat. Quando, 14 anni fa, scattarono le perquisizioni a casa dei pescatori, saltarono fuori cambiali e assegni protestati, che tiravano in ballo commercianti locali, ma non i Savignano, che pagavano sempre e subito, hanno ribadito i pescatori in aula.

Niente minacce, dunque, anche se a far scattare l'inchiesta fu un pugno sferrato da Bruno Savignano a un armatore croato, che chiedeva soldi. Allora, i Savignano vendevano i tonni in Giappone e le vongole in Tunisia, Egitto, Croazia, Spagna: nomi potenti della marineria, responsabili secondo l'accusa anche di reati fiscali, caduti in prescrizione.

La sentenza del tribunale di Pescara chiude definitivamente un'epoca. Resta la nota stonata della durata del processo, enorme per il numero risicato degli imputati, con tanto di cambio in corsa, per due volte, del collegio dei giudici. E una domanda, destinata a restare in sospeso: quanto sono costati alla comunità 14 anni di indagini, 100 faldoni di atti, le perizie contabili sul materiale sequestrato e la convocazione di oltre 100 testimoni, la metà di quelli richiesti dalla difesa?

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