Parrozzo, il dolce dei dannunziani

Il nome coniato dal Vate. La tradizione entrata nelle case di sei generazioni di pescaresi

PESCARA. «Conosciuto il Parrozzo ho dovuto, mio malgrado, ripudiare il Panettone». A scrivere a Luigi D'Amico, nel 1939, è un illustre sconosciuto che da Milano recapita un bigliettino all'inventore del Parrozzo per annunciare la sua conversione dolciaria. Quella lettera sta in un caveau di una banca accanto alle dediche di attori, cantanti, inventori, esploratori che, passati per Pescara, hanno dedicato un paio di righe al Parrozzo. «A Luigi D'Amico che ha inventato il Parrozzo. Da Luigi Antonelli che non ha inventato nulla»; «Lo vedi come sei!?! Mi mandi il famoso Parrozzo fenomeno dei dolci e me ne mandi solo un assaggio. Lo vedi come sei D'Amico?», firmato Macario; «A Luigi D'Amico creatore del Parrozzo, da Silvio D'Amico mangiatore del Parrozzo». 

A raccontare ai figli la liaison tra il dolce più famoso d'Abruzzo, Gabriele D'Annunzio e la regione, è oggi Pierluigi Francini che, da bambino, sul muro della cameretta aveva una gigantografia del Vate a Fiume e da bimbo passava le sue vacanze al Vittoriale. «Sono cresciuto così», racconta il titolare dell'azienda che si trova a Manoppello e del punto vendita il Ritrovo del Parrozzo in viale Pepe a Pescara. «Sono cresciuto considerando D'Annunzio come una persona di famiglia, una sorta di zio, fin quando non l'ho ritrovato sui libri di scuola, al liceo classico: le sue opere mi piacquero, le trovai gradevoli, ma a 16 anni non potevo certo digerire le tragedie». 

L'albero genealogico della famiglia D'Amico si è intrecciato con i parenti di D'Annunzio e, Francini, figlio di Teresa D'Amico, che ha ereditato l'azienda negli anni Sessanta, di Giuseppe, docente di lettere al liceo scientifico, perpetua la tradizione di famiglia portandola nel mondo e sperando di educare al dolce più famoso d'Abruzzo anche i cinesi. «L'idea di Luigi D'Amico fu quella di creare un prodotto dolciario fortemente legato al territorio», racconta Francini, «e prova e riprova gli venne l'idea di agganciarsi al pan rozzo che facevano i contadini ed ecco perché, poi, il dolce ha la forma di una pagnotta. Da pan rozzo a Parrozzo, come lo chiamò D'Annunzio, che lo assaggiò per primo, e di cui Luigi aveva sposato la nipote Hilde Bucco.

Ma il Vate era molto amico anche di Biagio, figlio di Luigi. Il pan rozzo veniva cotto nel forno a legna e acquisiva delle bruciacchiature in superficie che, poi, nel dolce sono diventate di cioccolato; mentre il granoturco è stato riproposto con le uova. Così, il Parrozzo è finito per diventare la trasposizione dolciaria di un prodotto che non lo era». Negli anni Venti, il dolce diventa un marchio e trova la sua prima casa: il Ritrovo del Parrozzo aperto in piazza Garibaldi nel 1927, poi trasferito in corso Umberto e infine vicino lo stadio, in viale Pepe. «Erano tempi in cui andavano animali cruenti, come le aquile, e invece Luigi, che si prendeva in giro, scelse per marchio le docili gallinelle incastrate a una spiga.

Mentre la confezione, la stessa di sempre, è stata disegnata da Armando Cermignani, un professore di disegno di origini teramane: la confezione rappresenta i tralci, le foglioline e le bacche».  Centomila parrozzi all'anno e due milioni di parrozzini e «anche in questo», prosegue Francini, «Luigi è stato un innovatore». Sposato con la signora Rossella, docente di lettere, e papà di Giorgio, Teresa e Filippo - «lavorano tutti con me, questo è un mestiere che ha bisogno di un forte coinvolgimento psicologico perché occorre sentirsi parte di una storia lunga un secolo», Francini racconta «che i parrozzini, contrariamente a quello che si pensa, sono nati con il Parrozzo e, all'epoca, non esistevano le "merendine", le porzioni monodose e il parrozzino è stato un prodotto innovativo». 

Venduto all'estero, il Parrozzo viene prodotto nell'azienda di Monoppello dove Francini, che vi lavora dal 1972, racconta di aver installato un impianto fotovoltaico. «L'innovazione: ecco, dovessi arrogarmi un carattere dannunziano penserei a questo per la mia famiglia. Ai pescaresi, invece, riconosco, come in D'Annunzio l'amore per le belle cose e l'intraprendenza». Il dolce e i pescaresi: per Francini, il Parrozzo, come dice, «è diventato un dolce che i pescaresi sentono ormai come una cosa propria.

E quando qualcuno mi racconta che cerca di rifarlo in casa, non mi dà fastidio, anzi, mi fa piacere perché testimonia il legame delle persone con questo prodotto». Dolce di contrasti - «il primo per la copertura amara e l'impasto dolce, poi per il colore scuro e l'interno chiaro e infine fuori duro e dentro morbido - il Parrozzo trova la sua armonia nei contrasti secondo Francini. Il Vate ha dedicato al dolce e al suo creatore «Luiggine D'Amiche» anche un sonetto dialettale. Definito «granito» da un'attrice degli anni Trenta, la definizione che sta più a cuore a Francini è di D'Annunzio, coniata per l'inaugurazione del Ritrovo del Parrozzo nel 1927: «Lo chiamò usbergo, scudo. Parafrasando una quartina di Dante, scrisse che se Corradino D'Angiò avesse avuto un parrozzo come scudo avrebbe vinto contro gli Svevi».

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