Pehuenche, una voce che illumina

Da un villaggio andino alle sponde dell'Adriatico sulle ali dell'amicizia e della musica
PESCARA. La scuola era una grande capanna fresca, con il tetto di foglie di palma e il pavimento in rossa terra battuta, non lontano dal Bio Bio, il fiume che attraversa la regione di Santa Barbara, 400 chilometri a Sud di Santiago del Cile. Lui, Miguel Angel Antonio Espinoza Pellao, per tutti Pehuenche, era un bimbetto vispo, con una voce potente che non si capiva da dove tirasse fuori, perché era magro e piccolino. Ma tant'è, superava quelle di tutti i suoi coetanei messi insieme nei giochi scatenati nel cortile. Un viaggiatore belga di ritorno dalle non distanti vette andine si fermò nel villaggio e lo sentì cantare. Gli piacque e quando ripartì gli regalò il suo registratorino con una cassetta delle più belle arie dell'opera lirica cantate da Caruso, Di Stefano, Gigli. «Avevo 9 anni», ricorda Pehuenche, «e l'ho consumato quel nastro a forza di ascoltarlo e riascoltarlo. Mi si ruppe e lo riparai con lo smalto per le unghie di una mia cugina». Ora di anni Pehuenche ne ha 30, sorride divertito raccontando in un italiano d'altri tempi il colpo di fulmine per la grande musica che lo «rapì» ragazzino. E quello con il turista belga è solo il primo di una serie di incontri speciali sulla strada del tenore cileno, incontri che lo hanno portato a Pescara, città che lo ha adottato «artisticamente e umanamente», diventando la sua città: «In Sud America c'è il mio sangue, il mio cuore. Qui c'è il mio sogno». Nessuno può vivere autenticamente senza una di queste componenti. Non un vero artista. «Di certo non io». Così Pehuenche ha costruito nota su nota un ponte ideale sull'Atlantico, che corre dalle Ande agli Appennini e che lui attraversa cantando. Nel villaggio sul Bio Bio ha radici forti come l'albero a cui deve il suo nome diventato d'arte: l'arancaria è in Cile una pianta sacra, il pehuen ne è il frutto, «una specie di pigna», spiega gentile, il suffisso «che» indica «persona del», dunque Miguel Angel diventa Pehuenche, l'uomo del pehuen, figlio del figlio di un albero sacro. Il legame con la sua terra è potente, ma il richiamo della musica lo è di più. Pehuenche vuole studiarla, conoscerla, impadronirsi di ogni suo segreto, non gli basta più vincere ogni anno il Festival del Pehuen (alla fine gli daranno premi speciali, perché altrimenti non c'era spazio per nessun altro concorrente). Raggranella i soldi necessari e decolla alla volta di Santiago, per frequentare il conservatorio. Le possibilità economiche sono poche, ma lui ogni volta che tira fuori una canzone fa innamorare, regala emozioni che gli ritornano in termini di grata solidarietà. Così nella capitale cilena trova ospitalità dalla famiglia Barra Vadebenito «un altro importante incontro della mia vita». Ha da dormire e da mangiare, gli servono solo i soldi per l'università. Una sera va a festesteggiare il compleanno di uno dei suoi ospiti in un ristorante dove, dicono, si suona sempre. E' «La midad del mundo», il locale di Max Berrù, fondatore dei mitici Inti Illimani. Non è ancora arrivata la torta che già tutti gli chiedono di cantare, lui lo fa e folgora anche Berrù. «Chiacchierammo e suonammo fino alle 4 del mattino», racconta. «Max, si sa, è appassionato di tradizioni e cultura andina in tema musicale e date le mie origini non si spiegava perchè io, con questa faccia indio, fossi dedito al belcanto. E io a spiegargli cosa mi piaceva della lirica, del grande Carreras e delle canzoni napoletane. Una discussione ancora infinita». Eccolo qua il nuovo incontro spraordinario di Pehuenche sulla via della musica. L'amicizia con la colonna degli Inti Illimani è immediata e duratura. Intanto una borsa di studio gli apre le porte del conservatorio Vivaldi di Conception, la città ora distrutta dal terremoto. Pehuenche studia, la chitarra è il suo strumento, insieme al charango, strumento a corde tipico degli altipiani andini. Con l'una o con l'altro si accompagna nelle serate al ristorante di Max, e un torna a surriento e una furtiva lacrima dopo l'altro ne diventa la star: lui canta e passa con il piattino e la gente comincia a prenotare un tavolo solo dopo essersi assicurata che quella sera si esibirà lui. «Venivano anche tanti italiani. Cenava lì anche Fabio Maresca, l'imprenditore abruzzese, forse il mio primo contatto con Pescara». E lui si pagava gli studi, anche perché col tempo quelle amicizie «di sinistra» gli costano la simpatia «dei governanti di destra», che gli tagliano la borsa di studio. Niente paura. «Max continuava a dirmi che il mio talento non poteva andare perduto, con i Barra e altri amici mi aiutava. Intanto conoscevo grandi musicisti e compositori cileni, incontri che erano cibo per la mia anima. E sognavo l'Italia di Puccini e Caruso». L'occasione arriva con una tournée dei Inti Illimani in Europa nel 2007: «Vieni con noi, mi dice Max. Ti paghi il biglietto e poi lì ci arrangiamo». Non se lo fa ripetere. Meta: Vienna. C'è una audizione da fare e un altro incontro cruciale ad aspettarlo. Michelangelo Di Mauro è di Pescara, ama la musica con tutto il cuore (la metteva su nelle radio libere da ragazzo) e ama senza riserve chi la fa, segue festival e concerti appena può. «Il destino ha voluto che questa persona importante per me avesse il mio stesso italianissimo nome di battesimo», sorride Miguel Angel. Ancora un colpo di fulmine: Di Mauro e sua moglie Silvana, con le tre figlie, prendono sotto la loro ala il ragazzo cileno. Lo portano a Pescara durante il suo soggiorno «per turismo». Si dannano per fargli avere i documenti di soggiorno mentre lui è in Cile. Ci riescono. Dal 25 luglio 2008 Pehuenche è pescarese («mi piace questa gente, mi piace il suono del dialetto»). Studia al conservatorio Luisa D'Annunzio con il maestro Paolo Speca, «un folle amante della musica», lo descrive ammirato; comincia a suscitare l'attenzione di critici e musicisti importanti, imponendosi in concorsi internazionali di lirica come il Tosti di Ortona, il Città di Basciano. Viene chiamato dal Marrucino di Chieti per cantare nei Pagliacci, nella Tosca, nel Nabucco, e poi dalla Riccitelli di Teramo per l'Otello e la Boheme; si diverte sui palchi abruzzesi con 'Nduccio e I sentimento agricolo, si esibisce in tv nel programma di Licia Colò «Alle falde del Kilimangiario». Nel mondo della lirica il suo nome prende a riecheggiare seriamente. Di qua e di là dell'Atlantico. E arriva il momento per lui di correre su quel ponte virtuale. Massimiliano Stefanelli lo vuole per il ruolo di Abdallo nel Nabucco, ma lui non può accettare: dal suo Cile lo reclamano per prestare la sua potente voce a Caupalican, il toqui, cioè il guerriero capo, nella Araucana, di Alfonso de Ersilla, frate spagnolo del 1600. Viene messa in scena per le celebrazioni dei 200 anni dell'Indipendenza cilena perché è «l'opera identitaria del mio popolo», spiega. «Io sarò l'indigeno, il grande tenore Tito Beltran (che lo ha richiesto ndr) sarà il conquistador. Non posso mancare. Ma poi torno». Qui c'è la sua vita, il suo amore, Paola Incani, mezzosoprano angelico. «Qui c'è il mio sogno».
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