Pescara, delitto Bucco archiviato senza colpevoli

La giustizia getta la spugna dopo oltre 4 anni e decine di perizie: scagionati i tre indagati, l’assassino resta impunito

PESCARA. La giustizia spedisce in soffitta anche la morte violenta di Nicola Bucco, adagiando il fascicolo tra le ragnatele su cui riposano altri omicidi dormienti, tutti gialli a cui manca l’ultima pagina: da Cristiano Scaletta a Donatella Grosso, da Emanuela Di Cesare a Italo Ceci. Alla voce "responsabile", ancora una sagoma senza volto e senza nome: film già visto in città. L'omicidio di Bucco, 53enne pescarese con occupazioni saltuarie, ha l'anomalia - che riletta a posteriori, pare quasi una sfida - di venire messo a segno in pieno giorno, tra le 14,30 e le 15,30 del 14 novembre 2012. La vittima conosce bene l'uomo che gli strappa la vita in pochi secondi, perché gli apre la porta e addirittura si appresta a preparargli il pranzo, visto che lui ha già mangiato: lo testimoniano il rubinetto del'acqua aperto e il pentolino sul fuoco trovati dall'amico Vittorio Massacese - proprietario del baretto del porto - alle 17,17, ora della scoperta del cadavere.

L'assassino fredda Bucco all'ingresso della cucina con tre coltellate a tradimento, che hanno l'effetto di azzerare reazioni della vittima. L'azione è fulminea ed evita grida che insospettiscano il vicinato, che non fa caso alla figura che si allontana dall'appartamento al piano terra di via Leopardi e di dissolve - insieme all'arma - tra le vie della riviera, mai inquadrato neppure una volta dalle 14 telecamere disseminate nella zona, molte delle quali ornamentali, vuote e dunque prive di filmati. Dettaglio, quest'ultimo, scoraggiante per l'inchiesta condotta con la solita abnegazione dalla squadra mobile e diretta dal pm Gennaro Varone, che incontra subito un ostacolo nella scarsa collaborazione offerta dal giro di amicizie intorno alla vittima.

Chi è stato ripreso dalle telecamere, spiega il gip Nicola Colantonio nel decreto di archiviazione, nulla c'entra con l'omicidio, da attribuire a un assassino che potrebbe avere raggiunto l'abitazione di Bucco anche attraverso strade secondarie sottratte alla videosorveglianza e comunque tanto abile da non lasciare traccia alcuna sulla scena del delitto, come da esito delle numerose e incrociate verifiche scientifiche, genetiche e informatiche. Non c’è neppure un Dna a caccia di padre, al fianco del corpo di Bucco.

Così, il bilancio finale a poco più di 4 anni dall'omicidio racconta di una sequenza di perizie e di 3 persone finite sul registro degli indagati più per atto dovuto che per reale convinzione: dal teatino Giuseppe Del Rosario, creditore della vittima, estraneo al punto che le indagini lo collocano fuori città al momento del delitto; al marocchino Ben Amri Rafik (difeso dall'avvocato Enzo Di Lodovico), con cui Bucco litigò in epoca preistorica ma amico stretto in tempi vicini al delitto; fino a Emilio Massacese (assistito da Maurizio Di Lallo), sul quale la procura ha acceso a lungo i riflettori e le cui dichiarazioni, scrive il gip , «sono risultate assolutamente inattendibili in quanto smentite dai tabulati telefonici e dai documenti acquisiti». Bugie che però non fanno di lui un assassino, secondo il giudice, perché nessuna prova colloca Emilio nella casa del delitto, alla marina Nord.

Mentre sulla nuova pista indicata in extremis due mesi fa in una lettera, che accusava due persone di statura elevata, una delle quali impiegata in Comune e sparita da tempo, non c'è stato bisogno neppure di un approfondimento di indagini: è uno scritto anonimo, e da codice, il suo destino è nel cestino, insieme alle intenzioni di chi l'ha spedito senza firmarsi. Quanto al movente - economico o sessuale che sia - ha la solidità di un castello di carte, e il gip ci soffia sopra, forte degli scarsi indizi raccolti a supporto.

Testimonianze, esame dei video, Dna e intercettazioni: le richieste della famiglia di Bucco - l'ex moglie e il figlio, assistiti dall'avvocato Enrico Della Cagna - per tenere in piedi l'indagine non hanno fatto breccia. Per il gip il materiale raccolto è sufficiente per chiudere il fascicolo e spedirlo in cima a quelli in attesa di colpevole. L'inchiesta va quindi in archivio, refugium iustitiae per tenere socchiuse le porte ad approfondimenti futuri, da rivitalizzare con improbabili nuovi elementi. Un éscamotage processuale che finisce per mantenere sotto scacco anche i sospettati convogliati nel fascicolo di partenza. Ma in realtà da leggere come la resa non scritta di una giustizia che getta la spugna, destino delle inchieste che tagliano il traguardo più infelice, quello delle incompiute, mortificando chi -nel silenzio e nel dolore- non smette di cullare nel cuore un anelito di verità.

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