Pescara, donna violentata aspetta giustizia da dodici anni

Un’infermiera racconta la sua vita stravolta: da quella notte è come morta L’aggressore è stato condannato a 5 anni ma, deve pronunciarsi la Cassazione

PESCARA. «Da quella maledetta notte sono come morta ma non ho perso la speranza nella giustizia». Si è trasferita, ha perso gli amici, ha vissuto isolata in un centro del Pescarese dove era stata additata come «una puttana» e come una visionaria che aveva inventato di aver subito una violenza sessuale.

Come cambia la vita di una donna che è stata violentata? E’ ieri, nel giorno della Festa della donna, che un’infermiera che oggi ha 40 anni ha deciso di raccontare cosa succede quando si subisce una violenza sessuale, quale stravolgimento subisce la vita e perché una sentenza può dare un sollievo a una storia drammatica. «Matteo Leo è stato condannato a cinque anni di reclusione in primo e in secondo grado», ricorda la donna, «ma sono in attesa della Cassazione», dice stupita dei tempi lunghi della giustizia per una storia iniziata dodici anni fa.

Nel 2002 la donna era un’infermiera di 30 anni, sposata e che lavorava in un istituto. La notte del 13 maggio di quell’anno è di turno e alle due di notte, come ricostruì l’accusa all’epoca guidata dal pm Filippo Guerra, la donna è da sola al terzo piano, nel reparto uomini ed è in quel momento che Leo l’afferra con violenza, le tappa la bocca per impedirle di urlare mentre la violenta. Due giorni dopo, la ragazza si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Teramo. Oltre ai segni della violenza, riporta diverse lesioni ed ecchimosi al torace.

Due settimane dopo l’aggressore finisce in carcere, poi ottiene gli arresti ai domiciliari e quindi torna libero. «In quella maledetta notte io sono morta», continua a ripetere la donna che nel frattempo lascia l’istituto, partecipa a un concorso, lo vince e va a lavorare in un’altra città. «Avevo vissuto isolata, avevo perso gli amici, la gente mi aveva tolto il saluto, nessuno mi credeva: da vittima mi avevano trasformato in carnefice», dice l’infermiera che quando è iniziato il processo di fronte al presidente del collegio Marco Bortone non ha perso un’udienza: «E’ stato terribile rivedere “quello” in aula, assistere ai suoi sorrisetti ma con me c’era mio marito che quel giorno mi ha stretto la mano così forte come per sfogare la sua rabbia. Senza di lui non so come avrei fatto in questi anni».

Nella sentenza di primo grado, l’uomo – un pescatore di 68 anni del Foggiano – viene condannato a risarcire la vittima di 35 mila euro eppure quel piccolo appannaggio non solo non è mai arrivato ma si è trasformato in una beffa per l’infermiera. «Ricordo quel giorno in cui ho pianto nella sede di Equitalia perché i beni di “quello”, alcune case, erano stati pignorate e io risultavo la cointestataria: ho dovuto perfino pagare 2 mila euro senza mai ricevere nulla del risarcimento che mi era stato assegnato», dice.

E’ nel 2005, così, a tre anni di distanza dalla presunta violenza, che «la sete di giustizia» dell’infermiera viene parzialmente «appagata», come racconta la donna, perché «l’uomo che mi violentò nel 2002 viene condannato a cinque anni di reclusione. Non ero pratica di queste cose e il giorno della sentenza pensavo che finalmente questa storia sarebbe finita. Poi mi spiegarono che, purtroppo, non era così». E’ in appello che il processo per violenza arriva con una lentezza impressionante perché la sentenza di secondo grado arriva solo nel 2012, sette anni dopo quella di primo grado.

Dopo il primo verdetto, intanto, «qualcuno ha iniziato a credermi», ricorda ancora la donna, «qualcuno mi ha riaperto la porta ma ormai era troppo tardi».

La sentenza di secondo grado è una fotocopia del primo grado perché l’uomo viene ancora condannato a cinque anni di reclusione ma all’infermiera non basta per voltare pagina ed è in attesa della Cassazione: «Perché tutto questo tempo?», si domanda l’infermiera sorpresa dai tempi lumaca della giustizia, quelli che potrebbero aiutarla un pochino a voltare pagina.

Alla donna, in seguito a quella notte, è stata riconosciuta una pensione di invalidità per infortunio sul lavoro e, poco dopo aver subito la violenza, prima ha lavorato in un’altra città – «dove ho trovato persone meravigliose», aggiunge – prima di cambiare ancora sede di lavoro. «Non potevo più restare dove vivevo, forse era la mentalità chiusa ma nessuno, neanche una donna, mi ha offerto mai la sua solidarietà. Solo una mia amica che scrisse al Centro una bellissima lettera per me».

«Voglio vederlo in prigione», dice la donna che nel frattempo ha avuto un figlio e non fa che domandarsi ma «perché dodici anni per vedere il mio processo concluso?», dice ancora retoricamente l’infermiera. «Per me è troppo importante, mi aiuterebbe un po’ perché mentre la mia vita in questi anni è stata distrutta quella di quell’uomo è continuata, lui è libero, fa quello che vuole», conclude la donna.

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