Placido, l’occhio indiscreto
E’ morto il grande giornalista, raccontò l’Italia attraverso il piccolo schermo
Che cosa vieta di dire la verità ridendo? Se lo chiedeva Orazio nelle Satire. Nulla, avrebbe risposto Beniamino Placido che alla verità implicita nella domanda retorica del suo corregionale improntò l’intera sua vita di scrittore. Con Beniamino Placido se ne va uno degli osservatori più disincantati e profondi della realtà italiana.
Placido era nato nel 1929 a Rionero in Vulture in Basilicata, ed è scomparso, l’altra notte, all’età di 81 anni, a Cambridge in Inghilterra, dove si era trasferito negli ultimi mesi per avvicinarsi alla figlia Barbara che vive lì, perché malato.
Lucano, aveva trascorso la maggior parte della sua vita a Roma, dove si era trasferito dopo aver vinto la carica di consigliere parlamentare della Camera dei deputati.
Negli anni Sessanta, Placido era andato negli Stati Uniti per studiare la letteratura anglo-americana e per questo, tornato a Roma, ottenne la cattedra all’università La Sapienza. Anche nelle aule dell’accademia dava voce alla sua onnivora curiosità culturale parlando con quel suo irrimediabile accento lucano che ricordava quello del personaggio del critico cinematografico interpretato da Stefano Satta Flores nel film «C’eravamo tanto amati».
Il mezzo che Placido scelse, a un certo punto della sua vita, per raccontare la realtà fu quello della critica televisiva. La sua popolarità, infatti, è legata soprattutto ai suoi articoli sul quotidiano la Repubblica, dove iniziò a collaborare nel 1976 e dove dal 1986, per otto anni, firmò la rubrica quotidiana «A parer mio», per poi passare a collaborare con Il Venerdì di Repubblica.
Chiuso in casa, sera dopo sera, sprofondato nella sua poltrona davanti alla televisione, protetto dagli occhiali da miope e armato di penna e taccuino, dava sfogo a una passione coltivata con una sorta di programmatico antisnobismo. Lo stesso che lo portò a scrivere, nel 1993, un piccolo libro, «La televisione col cagnolino», edito dal Mulino, in cui travasò la sua visione del piccolo schermo e, quindi, del mondo.
In questo saggio-pamphlet Placido spiega perché la tv non è buona né cattiva, non è la provvidenza né la catastrofe, ma più semplicemente uno specchio della nostra coscienza inquieta. Un pretesto, insomma, come la signora col cagnolino del racconto di Cecov - da cui il titolo - che, arrivando a Yalta, scatena un interesse morboso, funzionando come una cartina di tornasole dei pregiudizi dei villeggianti. In questo piccolo libro Placido se la gode un mondo a prendere in giro quelli che parlano male della televisione, cioè di quegli intellettuali che ne sparlano «almeno una volta al mese, almeno una volta alla settimana. Possibilmente, su un settimanale».
Con lo stesso spirito - la noia e le flaubertiane «idee ricevute» erano i suoi nemici peggiori -, Placido fece anche critica cinematografica in tv dove, insieme a Tommaso Chiaretti e Giuseppe Sibilla, realizzò «16 e 35» (nel 1978), un quindicinale in onda su Raidue che, secondo il critico televisivo del Corriere della Sera, Aldo Grasso, fu «felice dimostrazione di come si possa fare critica televisiva non rinunciando allo spettacolo ma soprattutto all’onestà intellettuale».
Fino al viaggio semiserio di «Eppur si muove» (1994) un programma alla scoperta del carattere italiano con Placido e Indro Montanelli a condurre il gioco spinti delle reciproche idiosincrasie.
Sull’universo televisivo pubblicò, nel 1990, anche un libro intitolato «Tre divertimenti, Variazioni sul tema dei Promessi Sposi, di Pinocchio, e di Orazio».
Con la sua faccia da Woody Allen lucano, Placido fu anche attore interpretando il ruolo del critico teatrale nel film «Io sono un autarchico» di Nanni Moretti.
Con il mondo del cinema, Placido aveva anche un legame personale, famigliare, quello con l’attore Michele Placido, di cui era cugino di secondo grado: suo padre e il nonno di Beniamino erano fratelli. «Beniamino Placido era l’orgoglio della nostra famiglia contadina, uno di quelli che ce l’aveva fatta e anche il mio riferimento a Roma», ha detto ieri Michele Placido. «La cosa curiosa è che, quando morì suo padre, fu proprio mio nonno Vincenzo, emigrato negli Stati Uniti, a sentirsi in dovere di dare una mano a questo ragazzino così intelligente».
Angelo Guglielmi, storico direttore di Raitre tra il 1987 e il 1995, è tra i giornalisti, scrittori, poeti e filosofi che nel 2006 firmarono «Caro Beniamino. Scritti per una festa di compleanno», un libretto dedicato ai 77 anni di Beniamino Placido. Guglielmi lo corteggiò a lungo per la sua Raitre: «Gli chiedemmo di fare una rubrica culturale, ma resistette fino al momento in cui tenne il suo spazio su Repubblica. Poi lo coinvolgemmo in un’avventura straordinaria, che doveva intitolarsi “Il professore e la bestia” e vederlo in coppia con Gianfranco Funari. La bestia, ovviamente era Funari e al professor Placido spettava il compito di correggerlo. Ma a ridosso dell’esordio, Funari ebbe un contratto da 5 miliardi di lire (o almeno così ci raccontò) dalla Fininvest e, quindi, il progetto non andò in porto, con grande dispiacere anche di Placido perché ci saremmo divertiti e ne avremmo fatto una delle esilaranti trasmissioni di Raitre».